La foto di quell’omino sconosciuto, vestito come diecimila altri, pantaloni scuri e camicia bianca davanti a una colonna di carri armati, è diventato il simbolo di una opposizione frontale al Potere dispotico, dovunque esso sia, comunque si eserciti. In quella sproporzione sono racchiuse migliaia di vittime, che non hanno trovato posto in una cifra ufficiale stampata sui libri di storia; ma sono racchiusi anche trent’anni di storia della Cina, e di un apparato “che tenta di cancellare Tian’anmen dalla memoria collettiva perché è una ferita ancora aperta”, dice Francesco Sisci, editorialista di Asia Times, docente alla Renmin University of China. Il 3 e 4 giugno 1989, giorni della repressione, Sisci era a Pechino come giornalista dell’Ansa. A distanza di dieci anni siamo tornati a parlare con lui del segno lasciato da quella tragedia nella Cina di oggi.



Il mondo ricorda Tian’anmen, divenuta un simbolo. Ma la Cina oggi commemora ufficialmente quegli eventi?

No, anzi si tenta di cancellare Tian’anmen dalla memoria collettiva perché è una ferita ancora aperta. Era uno scontro politico interno al partito che ha usato e giocato con i giovani che manifestavano in piazza e alla fine ha lasciato forse migliaia di morti.



Lei ritiene che il Partito comunista abbia neutralizzato il rischio di una nuova Tian’anmen in Cina una volta per tutte?

Una cosa come il movimento di Tian’anmen oggi sarebbe impossibile per mille motivi. Allora gli studenti e la gente non avevano nulla da perdere, oggi tutti hanno una casa, soldi da parte e forse un’auto. Allora le strade erano vuote e si riempivano e si svuotavano di biciclette. Oggi le strade sono intasate dal traffico. Ma è possibile che ci sia uno scontro interno e che questo scontro interno abbia ricadute in proteste di piazza, anche se non credo mai a cose così importanti come trent’anni fa.



10 anni fa lei ci disse che il governo cinese aveva capito in quel tragico spartiacque di dover fare le riforme per evitare guai peggiori; ci disse anche che tra governo e giovani universitari c’era stato uno scambio: “vi diamo la libertà economica purché non facciate grandi domande politiche”. Può fare un bilancio di questo aspetto?

Quel patto ora oggettivamente si è rotto. La lotta alla corruzione del presidente Xi Jinping ha posto, giustamente, dei limiti a come si diventa ricchi. Non tutti i modi vanno bene, fare soldi approfittando di legami politici, come si è fatto per 25 anni, non va più bene. Solo che poi non si è fatta chiarezza, non sono state presentate nuove regole, né si è tirata una riga sul passato. Per cui l’attivismo privato che ha fatto da volano all’economia negli ultimi decenni si è fermato. Questo più di ogni altra cosa rischia di ostacolare la crescita futura cinese.

Di recente lei ha affermato che Tian’anmen è la radice del problema attuale sul commercio che la Cina sta affrontando. In che senso?

Nel senso che occorre un nuovo patto politico. Quali sono i modi giusti per arricchirsi? Che tutele hanno le persone per i loro risparmi personali? Se i ricchi non possono più avere la protezione del leader corrotto di turno, che garanzie politiche hanno? La lotta alla corruzione deve avere come conseguenza un nuovo patto politico, che però non c’è stato. Perché non è avvenuto? È un problema aperto.

Prendiamo una persona per tutte, la più importante della Cina: Xi Jinping. Dov’era in quei giorni? Il suo orientamento e la sua carriera sono stati in qualche modo condizionati da quanto accaduto allora?

Non sappiamo dov’era Xi in quel momento. Di certo aveva l’età di molti dimostranti ed è possibile che per motivi anagrafici lui e i suoi colleghi oggi al potere simpatizzassero con le proteste. Il direttore del Global Times, la costola “movimentista” del Quotidiano del Popolo, voce della leadership, dice apertamente di essere stato un dimostrante. Così anche tanti ex studenti di Tian’anmen oggi sono al potere o capitani d’industria. Così come i loro compagni più grandi erano stati Guardie rosse nella Rivoluzione culturale.

Visto che l’ha richiamata, può fare un parallelo tra questi due momenti della Cina moderna?

Tian’anmen rispetto alla Rivoluzione culturale è stata diversa. La Rivoluzione culturale era una specie di grande inganno nella promessa di un’eguaglianza comunista dietro l’angolo. Oggi alcuni rimpiangono le lotte contro i ricchi ma l’eguaglianza comunista non c’è più. Tian’anmen, che sognava libertà e democrazia, ha lasciato i veterani divisi: erano sogni inattuabili o invece ideali che andrebbero almeno in parte ottenuti?

Noi da qui vediamo Tian’anmen come un episodio cruento di diritti umani negati. Era lo stesso per quegli studenti?

Oggi molti di quegli studenti pensano di essere stati usati in una lotta di potere e di essere stati ingannati. Molti pensano anche che proteste infinite che occupavano il centro di Pechino senza un vero, chiaro obiettivo politico erano destinate a essere represse un modo o nell’altro. Quello su cui non si riesce a riconciliarsi sono le truppe che hanno sparato contro la gente inerme. Questo fatto è di una qualità diversa dai morti politici di altre stagioni. Nella riforma delle terre si uccise, ma erano i contadini stessi a uccidere gli ex proprietari terrieri. Con il Grande balzo in avanti a uccidere fu la carestia. Nella Rivoluzione culturale erano le bande di Guardie rosse a uccidersi a vicenda. Ma a Tian’anmen per la prima volta furono i soldati del popolo a sparare sulla gente. Che si può dire su questo? Ci vorrebbe grande coraggio politico e forza di creare un nuovo patto politico in Cina. Ma per ora questo non c’è.

Quanto è rilevante oggi il tema dei diritti umani in Cina?

Onestamente non moltissimo. C’è, naturalmente, ma la gente comune non lo sente molto. Molto più rilevanti sono i timori che oggi la classe media e alta ha per la sicurezza della propria proprietà. Dopo di che ci sono i problemi dei gruppi religiosi, quelli degli attivisti eccetera. Che sono certo questioni gravissime ma non percepite, mi sembra, come “problemi di massa” che interessano tutti. La proprietà, quando tutti posseggono almeno una casa, invece, sì.

Oggi la Cina è presente in molti organismi internazionali, per esempio il Wto, e con la Nuova Via della Seta è pronta a imporre una sua egemonia. La questione dei diritti umani può essere un ostacolo?

Io credo che oggi il problema principale sia lo scontro commerciale con gli Usa sul commercio. Le richieste americane implicano di fatto riforme economiche e politiche che potrebbero essere molto importanti e cambiare il volto della Cina.

Lei ci disse nel 2009 che la Cina non ha mai smesso di mutare, lentamente, ma di mutare. È vero anche oggi?

Sì, solo che i tempi sono mutati. Dieci anni fa la Cina pensava di potere dettare l’agenda dei tempi: cambio al passo e con i ritmi che dico io. Oggi lo scontro commerciale con gli Usa impone tempi di cambiamento forse diversi. Le richieste americane dicono: Pechino deve cambiare entro pochi mesi o anni. Prima Pechino pensava di avere decenni davanti a sé. Oggi, se vuole decenni, va allo scontro con gli Stati Uniti.

(Marco Tedesco)