Da quando esiste il musical cinematografico, negli anni ’30, esiste il backstage musical, ovvero un tipo di musical che racconta le vicende di una compagnia o di un teatro o di artisti coinvolti nella realizzazione di uno spettacolo, un filone che vanta registi come Busby Berkeley – il padre del musical al cinema – e film come Cabaret. Ma Tick, Tick…Boom è uno dei rari casi di memoir musicale, di film che racconta la messinscena di un musical essendo anche un’auto-biografia (viene in mente solo All that Jazz di Bob Fosse) e, caso ancora più raro, non racconta la storia di una vita compiuta, ma di una vita praticamente da iniziare.



Tutto parte da Jonathan Larson, autore teatrale che scrisse l’opera nel ’90, come reazione al suo trentesimo compleanno e alla sua difficoltà a trovare la strada per il successo, raccontando le sue peripezie prima di presentare un suo progetto in un importante workshop. Non era ancora un musical, era un recital dal vivo; quando 6 anni dopo, Larson morì la sera prima del debutto di Rent – divenuto uno dei musical di maggior successo di sempre – la storia di Tick, Tick…Boom cambiò, fino al 2001, quando con un libretto parzialmente riadattato divenne un vero e proprio pezzo di teatro musicale.



Oggi Lin-Manuel Miranda – nuovo grande nome del genere – alla regia e Steven Levenson alla sceneggiatura (scrittore di Caro Evan Hansen) prendono il musical e ne fanno un film “biografico”, un omaggio a Larson e al musical come spettacolo in sé, raccontando le difficoltà di chi vuole sfondare nel mondo del teatro e dell’arte, ma anche riflettendo sotterraneamente su come si passa dall’evoluzione di un’idea alla sua resa spettacolare.

Il film sembra una sorta di lato “oscuro” di La La Land e dei racconti basati su abnegazione e determinazione che fondano buona parte della mitologia americana: non nega mai i presupposti per cui volere è potere (il finale in cui si omaggia anche il compianto Sondheim), anzi, ma fin dal prologo non c’è l’ottimismo vitalistico senza compromessi a cui siamo abituati da film simili, spira un vento di morte, di cedimento fisico o psicologico che parte da Larson e arriva a tutti gli altri personaggi e si sfoga attraverso la musica, per mezzo della voglia di esprimersi che dalle viscere dell’autore diventa ballo, danza, scena cinematografica.



Tick, Tick…Boom, sia nell’impianto narrativo quanto in quello musicale, sembra un manifesto della new sincerity, ovvero di quel tipo di racconti e composizioni in cui gli autori si mettono a nudo completamente, senza alcun tipo di ironia o distanza e Miranda segue Larson in questo “revival” anni ’90, si dedica al personaggio raccontato – e alla trascinante interpretazione di Andrew Garfield -, adatta il proprio mondo musicale alle esigenze del testo e delle canzoni, cerca di rendere l’energia originale con rispetto e un pizzico di devozione di troppo, forse.

Per questo forse è difficile giudicare in modo obiettivo il film se si amano i musical, la cultura che parte da Broadway, se ci si lascia andare proprio alla sincerità di cui Larson fu cantore e che di fatto, oltre al valore del cast e di alcuni numeri musicali, supplisce a qualche limite di ritmo e tenuta. Tick, Tick…Boom si offre allo spettatore con tutte le sue ingenuità, quasi ha bisogno di quell’ingenuità per veicolare il suo messaggio. È una questione di fede, proprio come la visione di un musical, che ci chiede di credere a qualcuno che canta al posto di parlare.

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