In una piccola azienda, un lavoratore informa la sua datrice di aver trovato un lavoro che gli è più congeniale; dopo le frasi di rito, la datrice gli chiede quando ha intenzione di iniziare il nuovo lavoro e il lavoratore le risponde: «in realtà, ho già iniziato nel periodo di cassa integrazione», di cui in effetti l’azienda stava godendo. Le spiega che si tratta di un lavoro irregolare e le chiede di licenziarlo, in modo da poter beneficiare della Naspi continuando a lavorare in nero. Al rifiuto della datrice di lavoro, che lo invitava a dimettersi, il lavoratore ha fatto spallucce, quasi a dirle: «ci vedremo a Filippi!».
Quando alla fine del periodo di cassa l’attività è ripresa, il lavoratore si è assentato per malattia; alla cessazione del periodo, ha prorogato la malattia; si tenga conto che, in questo periodo, le visite fiscali sono di fatto sospese perché i funzionari nemmeno sotto tortura si arrischiano a mettere il naso fuori dall’ufficio (o fuori dalle loro abitazioni, visto il lavoro agile, di cui molti godono). Alla fine della malattia, il lavoratore si presenta in azienda rifiutandosi di svolgere la prestazione e invitando nuovamente la datrice di lavoro a licenziarlo; al suo rifiuto, le dice che non si presenterà più al lavoro, e che attende a casa la lettera di licenziamento…
La datrice di lavoro mi ha chiamato disperata, per chiedermi cosa dovesse fare.
Da quale inghippo normativo nasce questo vicenda?
Le forme di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, come noto e come è logico che sia, sono sempre state assicurate in caso di disoccupazione involontaria; il che esclude che queste possano essere erogate quando sia il lavoratore a voler sciogliere il rapporto di lavoro di sua iniziativa (o consenta alla cessazione; salvo che in alcuni casi particolari, come le dimissioni per giusta causa, le dimissioni della lavoratrice madre, ecc.).
A differenza che per il passato, poi, la prassi amministrativa ha considerato come causa di disoccupazione involontaria – e dunque come valido titolo per la percezione della Naspi – anche il licenziamento per giusta causa, ossia quello che si integra quando si verificano dei fatti che non consentono la prosecuzione anche temporanea del rapporto.
Questo particolare ha portato a un meccanismo perverso. In effetti, la prassi invalsa – e che a dire il vero viene pacificamente suggerita dagli stessi operatori del diritto quando un lavoratore vuole cessare uno sgradito rapporto – non è quella di dimettersi (comportamento che come detto escluderebbe la percezione della Naspi), ma è quella di indurre il datore al licenziamento, ad esempio assentandosi senza addurre alcuna ragione.
L’obbligo di dimissioni telematiche, quelle particolari formalità di cui sono state ammantate le dimissioni, impedisce che si possa trarre una qualche conclusione del mero comportamento del lavoratore, ossia che lo si possa considerare dimissionario per fatti concludenti. E questo nonostante, nella legge delega n. 183 del 2004 (quella da cui ha avuto origine quel pacchetto di provvedimento volgarmente conosciuti come Jobs Act), il Parlamento avesse indicato al Governo di prevedere modalità per assicurare la certezza della cessazione del rapporto anche nel caso di comportamenti concludenti del lavoratore (come per l’appunto il fatto che il lavoratore manifesti la volontà di cessare il rapporto e nei giorni successivi non si presenti più a lavoro).
In questi casi, il datore altro non può fare che contestare al lavoratore l’assenza ingiustificata, attendere le sue giustificazioni (che solitamente non pervengono) e poi procedere al licenziamento immediato, senza corresponsione dell’indennità di preavviso.
E uno potrebbe dire: poco male, se non per il fastidio di trovarsi da un giorno all’altro senza un collaboratore che non ha nemmeno avuto la buona creanza di dare un termine al datore per trovare un suo sostituto. E invece no…
In effetti, la legge n. 92 del 2012 ha introdotto il c.d. ticket per il licenziamento, un (odiosissimo, se è consentito dire) contributo di solidarietà dovuto in tutti i casi di interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato per le causali che […] darebbero diritto all’ASpI (ora, Naspi), che è pari al 41 per cento del massimale mensile di ASpI per ogni dodici mesi di anzianità aziendale negli ultimi tre anni. In altri termini, ogni volta che si licenzia qualcuno (salvo alcuni casi particolari), anche se poi questi non accede alla Naspi perché trova lavoro il giorno dopo, bisogna pagare quella che è una vera e propria imposta per il finanziamento del sistema degli ammortizzatori sociali.
Altre soluzioni per evitare questo balzello non sono praticabili: in teoria si potrebbe ritenere sospeso il rapporto (e sospesa dunque l’obbligazione contributiva) mantenendo in servizio il lavoratore in modo da impedirgli di percepire la Naspi; e magari applicandogli plurime sanzioni come la multa, così da “erodere” pian piano le spettanze di fine rapporto del lavoratore. Ma oltre a dover pagare il consulente del lavoro per la redazione di una busta paga, pur a zero ore, si dovrebbero comunque pagare gli oneri contributivi e assicurativi in suo favore, visto che tali obblighi non si sospendono con la sospensione del rapporto.
Di recente, invece, il tribunale di Udine ha reso una sentenza che consente di attenuare gli effetti perversi di queste prassi. In effetti, con la sentenza 30 settembre 2020, n. 106, è stato riconosciuto al datore di lavoro il diritto di richiedere il risarcimento del danno per il pagamento del contributo previsto dalla legge n. 92 quando il datore sia stato costretto dal lavoratore a interrompere il rapporto: in particolare, la giudice, in un caso analogo a quello che ho presentato, ha accolto la domanda risarcitoria del datore perché «il cd. ticket per il licenziamento è un onere che la datrice ha dovuto sopportare esclusivamente perché [il lavoratore], anziché dimettersi […] l’ha deliberatamente posta nella necessità di risolvere il rapporto lavorativo»; e dunque ha condannato il lavoratore a rifondere questa spesa. E peraltro solo per un problema di insufficienza della prova non è stato addossato al lavoratore anche l’onere sopportato dall’azienda in favore del consulente che ha dovuto predisporre gli atti del procedimento disciplinare e gli altri adempimenti del caso.
Si tratta di una sentenza importante, perché potrebbe contribuire a correggere una delle tante gabole che si pongono nella gestione di un rapporto di lavoro; ma normalmente i datori sono riluttanti a percorrere la via giudiziale, come lo è stata la mia cliente cui avevo suggerito di trattenere l’importo del ticket dalle spettanze di fine rapporto.
Più efficacemente, quello che andrebbe corretto è il sistema sopra descritto; ad esempio, dando piena attuazione alla legge delega n. 183 e prevedendo che alcuni comportamenti, come un’assenza prolungata oltre un dato periodo, possa essere considerata come una forma di volontà di recedere dal rapporto.