Nel Tigrai, regione dell’Etiopia al confine con l’Eritrea, da circa due anni dilaga una feroce guerra civile tra quelle maggiormente dimenticate (o ignorate) dalla comunità internazionale. Un crisi che non accenna a diminuire nella sua portata, ma anzi accelera, e rischia di lasciare la regione completamente deserta, nella migliore delle ipotesi. Ma si tratta anche di un conflitto i cui confini appaiono, dopo due anni di combattimenti, piuttosto sfumati, tanto da chiedersi chi stia attaccando e chi si stia difendendo, con la sola certezza che a pagarne il prezzo maggiore sono le persone, i civili, che nel Tigrai vivono o forse, a questo punto, vivevano.
La portata della crisi nel Tigrai
I confini della guerra civile in Tigrai, insomma, sono diventati piuttosto incerti, mentre è noto che sono scoppiati a novembre del 2020 per poi placarsi (ma senza effettivamente concludersi) nel novembre del 2022. Lo scoppio è legato al fatto che quattro anni fa quando l’Eritrea decise di invadere la regione, occupandone ora effettivamente alcune zone di confine. Per oltre 6 mesi, nel 2020, il premier etiope negò la presenza delle truppe eritree, aumentando la sfiducia della popolazione, che in parte ha deciso di avallare l’invasione eritrea.
Oltre all’aspetto bellico, però, per comprendere la portata della crisi nel Tigrai, vale la pena mettere in campo un paio di numeri significativi. Secondo Oxfam, per esempio, oltre 3,5 milioni di tigrini sono sull’orlo della carestia. I morti sul campo sono, invece, stimati a 600mila. Si assiste, al contempo, anche ad una generale fuga dalla regione, con oltre 1,5 milioni di persone che hanno raggiunto l’Etiopia, dove il tasso di fame estrema è schizzato alle stelle, e colpisce oggi un abitante su tre. Come se non bastasse, nel Tigrai non ci sono più farmaci o medici, che non ricevevano stipendi da circa 3 anni, mentre si fa sempre più strada un fenomeno decisamente triste, ovvero l’aumento dei casi di mortalità materno infantile.