Il 5 novembre scorso, il Consiglio di amministrazione di TIM ha accettato l’offerta vincolante sottoposta dal fondo statunitense Kohlberg Kravis Roberts & Co. L.P. (KKR) relativamente all’acquisizione di NetCo, società che detiene sostanzialmente l’infrastruttura della rete fissa di TIM, ovvero la rete secondaria in fibra e in rame dalle centrali a casa utente. Il Consiglio ha votato con la maggioranza di 11 amministratori favorevoli e tre contrari, assente solo Giovanni Gorno Tempini, Presidente di Cassa depositi e prestiti (Cdp), che, in quanto azionista al 60% di Open Fiber, allo stato concorrente, non partecipa alle discussioni sulla rete dell’incumbent.
L’offerta è di circa 20 miliardi di euro, che arriverebbe fino a 22 miliardi se si realizzerà la “rete unica” tramite la fusione con l’infrastruttura di Open Fiber. Riguardo a Sparkle, che gestisce i cavi sottomarini, il fondo americano KKR ha presentato un’offerta non vincolante. Ma la prima proposta non è stata ritenuta congrua e a tal proposito, il Cda ha dato mandato all’Ad Labriola di ricevere un’offerta migliorativa.
Molto è stato già scritto su questo primo accordo, che si dovrebbe chiudere l’estate prossima, nel 2024.
Quali sono i “punti di forza” di questo accordo? Noi ne abbiamo individuati alcuni.
1) Finalmente, in maniera abbastanza chiara, lo Stato rientra nella gestione di un’infrastruttura, come quella della rete, assolutamente strategica, sia dal punto di vista industriale che da quello della sicurezza nazionale, attraverso la partecipazione diretta nell’offerta del ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), con un investimento di circa 2 miliardi di euro, che garantisce una quota di circa il 20% di NetCo. Questa partecipazione statale ha comunque, molti limiti: ben diversa sarebbe stata una presenza forte di Cdp, con capacità di indirizzo industriale e mantenendo l’azienda TIM unita.
2) KKR offre una cifra di almeno 20 miliardi: sia l’Ad Labriola che il Presidente Rossi hanno subito sottolineato l’importanza di una tale cifra – che è possibile per un fondo americano potente come KKR – che permette di abbattere il debito di TIM, problema ormai incancrenito da più di venti anni, in modo significativo. Si pensi che solo quest’anno, per l’aumento dei tassi di interesse, la TIM ha pagato oltre un miliardo di interessi sul proprio debito. Sembra chiaro perciò, che questo passo, da parte del Cda TIM era praticamente obbligato, imposto dalla criticità economica del debito.
3) In qualche modo, è almeno ipotizzato un piano per fondere NetCo con Oper Fiber, l’altra detentrice italiana di una rete in fibra, posseduta da Cdp al 60%, e che versa in gravi difficoltà finanziarie: si parla di circa 6 miliardi di debito a fine 2023. Questo permetterebbe almeno di eliminare la stortura del settore italiano delle telecomunicazioni, un unicum rispetto allo scenario europeo, che ha due fornitori di rete in fibra.
4) Dopo un primo momento di smarrimento del mercato, dovuto all’azione legale intrapresa da Vivendi, principale azionista francese della TIM, fortemente contrario a questa offerta, le principali agenzie di rating sembrano scommettere su Tim a seguito del via libera del Cda alla vendita di Netco a KKR: per S&P, Moody’s e Fitch, il piano dell’Amministratore delegato Pietro Labriola, se finalizzato, è adeguato per garantire un futuro sostenibile e una maggiore competitività all’azienda.
Purtroppo, però, i punti di debolezza e di criticità di questo piano sono molti di più e non fanno ben sperare.
1) Prima di tutto, Vivendi, primo azionista di TIM con una quota del 23,7%, intende contrastare legalmente la delibera del Cda ritenendola illegittima. Certamente, i termini di questo contrasto legale sono difficilmente prevedibili. Ricordiamo che Vivendi ha già dovuto svalutare la sua quota, con oltre tre miliardi di perdite. Bollorè è entrato in Telecom nel 2014, ha cambiato quattro amministratori, senza aver mai provato a definire una strategia di lungo termine. Forse, se Vivendi riuscisse a strappare un buon compromesso economico, potrebbe accordarsi per limitare almeno in parte le proprie perdite economiche e uscire di scena. Di certo, la presenza di Vivendi in Telecom/TIM non sarà rimpianta da nessuno.
2) Questa soluzione della rete separata dai servizi rappresenta un caso unico nello scenario europeo e internazionale. Non possiamo che ribadire il parere espresso lo scorso anno da alcuni autorevoli ex manager Telecom: “Bisogna innanzitutto ricordare che la rete non è fatta solo di cavi, in rame o in fibra, ma di apparati intelligenti, di hardware e di software, che grazie all’uso di tecnologie sempre più sofisticate hanno consentito agli operatori di offrire nuovi servizi, passando dalla voce ai dati, poi a internet, allo streaming, al video on demand e ancora lo smart working, la telemedicina, l’internet delle cose, (…). E l’interazione è continua, tra sviluppo della rete e offerta di nuovi servizi. Perciò è davvero difficile vedere come possa funzionare bene un modello con due società separate, con azionisti diversi. Un modello concepito più per venire incontro alle esigenze di qualche azionista – o subire una pressione regolatoria dell’Europa che non ha riscontro in altri Paesi dell’Unione – che per una chiara visione di sviluppo industriale. E di questo invece ci sarebbe oggi assoluto bisogno davanti alle sfide della trasformazione digitale.” E ancora, lo scorso anno, sempre questo gruppo dichiarava: “Dividere un’azienda in più parti in modo da trovare acquirenti o azionisti diversi interessati all’una o all’altra parte è la soluzione adottata molto spesso dai fondi di private equity e suggerita dalle banche d’affari per ‘estrarre’ il massimo valore. Non c’è quindi da stupirsi che questa sia la soluzione suggerita da KKR e che spingano in questa direzione alcuni degli attuali azionisti. L’alternativa è quella di puntare a un diverso assetto azionario in cui il Governo, attraverso Cdp, diventi l’azionista stabile, di riferimento, così come avviene in Francia con Orange e in Germania con Deutsche Telekom. E come avviene in Italia con Enel, Eni, Poste, aziende strategiche per il futuro del Paese.”
3) Nelle dichiarazioni sopra riportate, si esprime un forte scetticismo verso l’attore principale di questa nuova fase: KKR. Avevamo già descritto in passato la fisionomia di questo fondo americano di private equity. Recentemente, Forbes ne ha fornito una descrizione accurata, che si conclude in questo modo: “Di recente si è parlato molto di KKR anche per il caso Marelli. Il fondo ha acquistato l’azienda nell’ottobre 2018 da Fca per 5,8 miliardi di euro, tramite la giapponese Ck Holdings. La fusione ha dato vita al settimo polo mondiale della componentistica per auto, ma nel 2022 Marelli si è trovata schiacciata da 7,9 miliardi di debiti e ha dovuto varare un piano di ristrutturazione. A settembre KKR ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Crevalcore, in provincia di Bologna, poi sospesa. In quello di Venaria Reale, nel torinese, secondo la Fiom sono a rischio 500 posti di lavoro.” Recentemente, si è aperto un dibattito sulla stampa italiana, riguardo a KKR: filantropi o speculatori?
Ovviamente, KKR fa e continuerà a fare il proprio legittimo interesse privato. Sarà veramente un compito arduo per il Mef controllare e dare un indirizzo industriale alla NetCo che tenga conto dell’interesse nazionale.
E chi garantirà, come sarà possibile garantire la necessaria sinergia fra rete e servizi?
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