Sono passati ventitré anni dall’Opa con cui un gruppo di finanzieri di nessun’altra voglia che non quella di fare un’enorme plusvalenza – anche se guidati da Roberto Colaninno, unico personaggio non privo di qualche visione imprenditoriale – scalarono il gruppo Telecom scaricandogli in pancia il grosso del debito fatto con le banche per pagare i 100 mila miliardi necessari all’operazione.



Uno scempio reso possibile dal diktat del Governo D’Alema che ottenne la passività del Tesoro – allora guidato dal ministro Ciampi e dal Direttore generale Draghi, che avrebbero potuto attivare i diritti speciali dell'”azione d’oro” per bloccare lo scempio in assemblea sociale e non lo fecero – e della Banca d’Italia che con il suo fondo pensioni avrebbe potuto dire no a un’offerta che chiaramente avrebbe tagliato le ali a quello che era ancora, all’epoca, un gruppo pieno di risorse, tecnologiche e finanziarie, e non lo fece.



Da allora, qualsiasi cosa ne abbiano detto i comunicatori di Tim, il ritmo degli investimenti sulla rete fissa e mobile che l’ex operatore monopolista pubblico, così mal privatizzato, ha potuto tenere in Italia è molto rallentato. Soprattutto nelle regioni a minore redditività.

Per questo il Governo Renzi costituì a fine 2015 un’azienda totalmente pubblica, Open Fiber, affidata all’Enel e alla Cassa depositi e prestiti, col compito di creare una rete telematica a banda larghissima, incaricata di coprire essenzialmente le zone “a fallimento di mercato”, cioè quelle dove non conveniva agli operatori privati impiantare fibra ottica, con l’obiettivo però di integrarsi prima o poi con la rete Telecom per dare finalmente razionalità e unitarietà a un’infrastruttura strategica per lo sviluppo economico di un Paese moderno: un’infrastruttura talmente strategica che – come le reti del gas, dell’elettricità, delle ferrovie e delle strade – non deve essere esposta alle fluttuazioni e agli arbitri di proprietà private, tanto meno se straniere.



Da allora, e siamo a otto anni di distanza, è iniziato un balletto imbarazzante tra lo Stato – con i vari Governi che lo hanno incarnato, peraltro assorbiti da ben altre emergenze – e i signori di Telecom, oggi oppressi dalla presenza di un socio straniero preponderante, il gruppo francese Vivendi, che però non esprime la governance, attribuibile piuttosto a un gruppo eterogeneo di altri investitori istituzionali, accomunati comunque dall’unica legittima intenzione di guadagnare il massimo dal loro investimento.

Interpellata nella sua conferenza stampa-fiume di fine anno, la Premier Giorgia Meloni ha detto qualcosa di breve, semplice e – ahimè – inconsistente sul tema: “Prudenza su questa materia. Tim è una società privata e quotata. Confermo che il Governo si dà il duplice obiettivo di assumere il controllo della rete e di lavorare il più possibile per mantenere i livelli occupazionali. Il resto lo lasciamo alla dinamica libera del mercato”.

Benissimo: onore alla prudenza, ma in sostanza cosa può accadere?

Vediamo i fatti ad oggi.

Si sa che Vivendi valuta la rete fissa di Telecom l’iperbole di 31 miliardi di euro. Perché “iperbole”? Semplice: perché oggi in Borsa Tim fatica a raggiungere una capitalizzazione di 5 miliardi, oppressa dai debiti com’è. Eppure Tim “contiene” la proprietà di quella rete, e la gestisce. E allora, come si può pensare che qualcuno, sano di mente, per prendere il controllo della rete sborsi 30 miliardi anziché lanciare un’Opa su tutta Tim che costerebbe molto meno? Certo: Tim è piena di debiti che richiederebbero un aumento di capitale (non a caso Vivendi vorrebbe scorporarne 10 miliardi e infilarli nell’eventuale società autonoma della rete che potrebbe essere costituita per confluire con Open Fiber); e ha anche migliaia di dipendenti in esubero; ma queste sono altrettante buone ragioni affinché chiunque gestisca Tim si guardi bene dallo spogliarla della rete, unico asset a oggi sicuramente appetibile e redditizio, perché il grosso del traffico telematico italiano su rete fissa è ancora “costretto” a utilizzare appunto la rete Tim, pagando s’intende.

Ma allora – viene da chiedersi – non potrebbe il Governo italiano dare ordine a una sua azienda completamente controllata (ipotesi: Open Fiber!) di lanciare un’Opa su Tim? Se fosse il Governo francese, se cioè avesse in Europa il potere (e la faccia tosta per esercitarlo) che Parigi ha, potrebbe. Ma noi non possiamo. Tantomeno contro gli interessi di Vivendi, che è culo e camicia con i poteri forti che reggono all’Eliseo il loro avatar Emmanuel Macron.

Come potrebbe mai osare l’Italietta indebitata salvata da Draghi, ossia da uno dei correi del disastro Telecom, riprendersi il maltolto della rete Tim, per di più usando soldi pubblici, ossia garantiti dalle emissioni di Btp in euro, le stesse che vengono deliberate da un governello di destra che non vuole ratificare il Mes?

Dunque il vicolo in cui si è infilata questa vicenda è del tutto cieco. Lo Stato non può scalare Tim; Vivendi non permetterà mai la vendita a un prezzo sensato della rete. Non teme che Tim prima o poi fallisca? Potrebbe temerlo, perché è chiaro che a tirar troppo la corda, l’equilibrio economico di Tim prima o poi si spezzerà, ma i soci dominanti se ne strafregano perché sanno che in quel gruppo ci sono 42 mila dipendenti in Italia e quasi 10 mila in Brasile, altrettanti “scudi umani” rispetto a qualunque soluzione drastica che il famoso “mercato” evocato anche dalla Meloni dovesse indurre.

Lo scenario più concreto è che anche Tim, dopo Ilva e ITA, si trasformi in un carrozzone assistenziale di Stato. Al termine di un’ulteriore lunghissima agonia. E che la rete unica fino ad allora resterà una chimera.

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