La pandemia che stiamo vivendo ha reso chiarissimo e lampante a tutti il valore dell’infrastruttura della rete di telecomunicazione, come fattore abilitante che ha permesso e tuttora sta permettendo di poter comunicare, mentre si rimane a casa o almeno si pratica il distanziamento sociale. In poco tempo abbiamo visto l’estendersi del lavoro remoto da casa (smart working) per fasce di popolazione molto rilevanti e fino a poco tempo fa inimmaginabili, abbiamo visto l’uso di piattaforme di smart school che hanno consentito, in un periodo di emergenza, di poter continuare, anche se con significative limitazioni, un rapporto educativo e l’uso diffuso di piattaforme di comunicazione social per attività culturali o sociali di vario tipo.
Nella recente audizione alla Commissione Trasporti dell’8 aprile su “Tecnologie per contrastare il coronavirus”, il presidente della Tim Gubitosi ha spiegato che la rete fissa Tim, con i suoi 18,3 milioni di km di fibra ottica che collegano 116.000 cabinet stradali FTTC, è stata in grado di sostenere l’aumento di traffico causato dal lockdown (evidentemente anche con significativi ampliamenti sulla rete nazionale a tutti i livelli e ai collegamenti con internet operati in questo periodo), fino al picco massimo di traffico, registrato il 14 marzo, di 40,1 Petabyte (1 PetaByte = 1 milione di GigaByte). E riferendo queste informazioni, il presidente Gubitosi ha usato delle parole non di circostanza per dire che: “Questa rete ci viene dal passato, da persone che sapevano fare le cose, che avevano grandi capacità tecniche. Questa rete è una delle migliori d’Europa per costruzione, dimensionamento, capacità”.
Anche nell’audizione, si è toccato – seppure in modo tangenziale – di nuovo, il tema della rete unica; fra l’altro, il presidente Gubitosi ha ricordato l’intervista di Vito Gamberale sul Sole 24 Ore dell’8 aprile. In questa intervista, Vito Gamberale, già primo Amministratore delegato dell’operatore mobile Tim, in maniera molto schietta, ha sottolineato: “Quali sono gli esempi al mondo di due reti di tlc? C’è stato un tentativo in Nuova Zelanda e un altro tentativo maldestro in Australia, poi fallito. La rete duplicata non esiste né in Europa, né in alcun Paese asiatico avanzato, e sotto questo aspetto ci metto anche l’India, insieme alla Cina, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud: nessuno ce l’ha. Negli Usa tre operatori si sono divisi gli Stati. Ma lì ci sono 300 milioni di abitanti, che mediamente quindi servono 100 milioni di abitanti a testa. Stiamo parlando di una cosa che non esiste al mondo”.
Effettivamente, sembra ormai esserci a livello politico e governativo una convergenza su questo tema: oltre ai rappresentanti del M5S e del Pd al Governo, anche la Lega si è mostrata disponibile. Da tempo lo richiedono le organizzazioni sindacali confederali di tutto il comparto e lo richiede la associazione dei piccoli azionisti di Tim, Asati.
L’associazione Asati è tornato a ribadirlo con una lettera appello il 30 aprile, rivolta al presidente del Consiglio, al ministro del Tesoro, al ministro dello Sviluppo economico e alla Cdp: il potenziamento delle infrastrutture di rete di telecomunicazioni, obiettivo posto dal decreto-legge Cura Italia, “non può prescindere dalla costituzione di una rete unica e neutrale, attraverso la convergenza della rete di Tim con quella di Open Fiber, in grado di garantire una piena parità di accesso a tutti gli operatori, evitando diseconomie e così consentendo al nostro Paese di eliminare il divario digitale ultra broadband con altri partners europei”. Il Governo, quindi, prosegue Asati, “è ben consapevole che la crescita esponenziale del traffico registrata nel periodo di emergenza Covid-19 rende ancora più urgente l’adozione di misure e iniziative atte a potenziare le infrastrutture di rete. L’appello termina rinnovando al Governo e alla stessa Cdp “l’invito a promuovere, o meglio, ad accelerare il confronto tra gli operatori per delineare le condizioni volte ad integrare le infrastrutture, potenziare e ottimizzare gli investimenti in fibra, attraverso la creazione di una infrastruttura unica nazionale controllata da Tim, una operazione che porterebbe vantaggi agli operatori, al mercato, agli azionisti e al Paese intero”.
Ma di fronte a questa “improvvisa” convergenza politica e sociale, su tanta stampa specializzata e su diverse pagine economiche di quotidiani nazionali, si alzano barricate, si alimenta un fuoco di fila di distinguo, si pesca nella diffidenza diffusa verso l’ex monopolista, si riafferma – quasi come un mantra – il grande passo in avanti del mercato concorrenziale e si paventa minacciosamente un “tornare indietro” al monopolio. E visto che ormai è diventato impossibile sostenere la positività di uno scenario con due reti in costruzione, concorrenti fra loro, ora il nuovo slogan sembra essere diventato: “rete unica sì, ma con un operatore wholesale only“, ovvero che possieda e gestisca soltanto la infrastruttura di rete e la renda disponibile a tutti i fornitori di servizi di telecomunicazioni, in un quadro di concorrenza pienamente paritaria.
Tim, con il presidente Gubitosi, ha affermato che il modello wholesale only è risultato fallimentare ovunque sia stato applicato e che invece il modello da adottare sia una rete sotto il controllo di un operatore verticalmente integrato quale Tim.
A noi sembra che il primo modello sia solo teoricamente quello più “pulito”, quello apparentemente in grado di garantire una piena e completa concorrenza fra i fornitori di servizi; tale modello, come minimo, risulta di difficilissima implementazione e richiederebbe tempi di realizzazione lunghissimi. Insomma, sembra la classica argomentazione (il meglio è nemico del bene!) presentata per far arenare questa iniziativa, proprio quando se ne intravvede finalmente la fattibilità.
Naturalmente, la soluzione prospettata dal presidente Gubitosi non è necessariamente ottimale, ma sembra molto più realisticamente realizzabile. Dal nostro punto di vista, l’aspetto decisivo di questa proposta sarebbe anche nel fatto che Cassa depositi e prestiti, già presente in Tim come azionista intorno al 10% e proprietario di Open Fiber al 50% circa, con una fusione delle due realtà, diventerebbe un azionista ancora più forte – forse di maggioranza relativa – di Tim e potrebbe perciò dare finalmente stabilità alla proprietà e potrebbe finalmente indicare delle linee guida di sviluppo della rete secondo esigenze dettate dal sistema-paese, quindi anche pianificando investimenti a medio e lungo termine. Questa soluzione del resto non sarebbe molto lontana da quelle attualmente adottate in Francia e Germania, come già abbiamo avuto modo di ricordare in passato.
A questo punto, probabilmente, potrebbe nascere questa domanda: “di nuovo lo Stato, di nuovo la prospettiva di mettere in mano allo Stato – e quindi alla politica (!) – un asset significativo del mercato industriale italiano?”, con tutta la diffidenza e l’aperta ostilità che in questi ultimi venti anni i mass media hanno indotto a piene mani nell’opinione pubblica, per lodare le capacità sempre “progressive e illuminate” del mercato.
La privatizzazione di Tim è una delle più sciagurate e controverse operazioni economico finanziarie della storia del nostro Paese (Maurizio Matteo Dècina “Goodbye Telecom. Dalla Privatizzazione a una Public Company. Antologia del ventennale 1997-2017”) e la “Telecom è stata la più profanata delle grandi aziende italiane” (Gamberale dixit).
Se non altro, tutta questa vicenda ci ha insegnato due cose molto importanti, che varrebbe la pena siano tenute a mente: (1) non esiste in Italia un capitalismo in grado di prendersi carico di un’azienda di tali dimensioni e di questo tipo di mercato e infatti gli investimenti “reali” fatti per acquisirne la proprietà sono sempre stati irrisori e spesso sono stati fatti caricando l’azienda stessa di nuovo debito (il famigerato leveraged buyout); (2) lasciata a se stessa, un’azienda come Tim, comunque con un grande e significativo fatturato e che presidia una dei mercati e dei settori tecnologici più avanzati, diventa inevitabile “preda” di speculatori stranieri, che non hanno nessun interesse a perseguire finalità e obiettivi per il sistema-paese che li ospita, ma intendono soltanto ricavare altissimi profitti in tempi brevi.
Arrivare a una soluzione che finalmente fermi lo scempio di vedere tuttora la costruzione di due infrastrutture di rete e ricrei le condizioni perché l’Italia abbia un operatore di medie dimensioni, in grado di confrontarsi con i principali operatori europei e con una proprietà stabile che possa e voglia rispondere alle esigenze di sviluppo industriale del sistema-paese, sarebbe senza dubbio un passo decisivo per assicurare un’infrastruttura tecnologica avanzata assolutamente necessaria soprattutto ora, per perseguire concretamente la ripartenza economica e sociale che il Paese attende.
Un percorso molto più lungo invece è quello di arrivare a una vera “public company”: un’azienda come Telecom, che gestisce un’infrastruttura di rete che è un fattore abilitante per tutta l’economia di una nazione, non può configurarsi come semplice azienda privata che ha come principale scopo quello di produrre ricchezza da distribuire unicamente ai proprietari (gli stakeholders). Ma per una vera “public company” in Italia, mancano ancora delle leggi adeguate che prevedano ad esempio, che i lavoratori abbiano una propria rappresentanza nel consiglio di amministrazione, manca una fascia di popolazione sensibile su questi temi, disposta a investire i propri risparmi in aziende “pubbliche”, non perché meramente statali, ma che perseguano finalità pubbliche (in questo senso, la associazione Asati si pone come battistrada ed esempio da consolidare).
Breve Post Scriptum: Visto che siamo ospitati da un sito che ha a cuore la sussidiarietà, vorrei sottolineare come la prospettiva che qui viene proposta, ovvero che la Tim torni a essere un operatore di un asset strategico rispetto al sistema-paese e fondamentale dal punto di vista della sicurezza nazionale, attraverso la presenza di strutture economiche in qualche modo riferite allo Stato, come Cdp, non sia in antitesi rispetto a essa. Infatti, nel compendio di Dottrina sociale della Chiesa n.188, si afferma che: “Diverse circostanze possono consigliare che lo Stato eserciti una funzione di supplenza. Si pensi, ad esempio, alle situazioni in cui è necessario che lo Stato stesso promuova l’economia, a causa dell’impossibilità per la società civile di assumere autonomamente l’iniziativa; si pensi anche alle realtà di grave squilibrio e ingiustizia sociale, in cui solo l’intervento pubblico può creare condizioni di maggiore eguaglianza, di giustizia e di pace.” Ci sembra che queste parole si sposino perfettamente con la situazione attuale di Tim.