Oltre un minuto di stretta di mano tra Mario Draghi ed Emanuele Macron per suggellare il trattato Italia-Francia e molti, infuocati minuti di consiglio d’amministrazione di Tim, dove il socio francese Vivendi conta alquanto, per prendere atto senza battere ciglio delle dimissioni rassegnate da Luigi Gubitosi, l’amministratore delegato, in aperta polemica proprio con Vivendi, che non voleva più averlo tra i piedi.
Le due cose, sia chiaro, materialmente sono del tutto distinte. Ma l’avvicendamento al vertice di una Tim preponderantemente influenzata dai francesi di un capo-azienda che – bravo o meno, simpatico o meno – non era il loro scrivano e il contemporaneo aprirsi della discussione sull’offerta presentata dal fondo-locusta Kkr… be’, sono concomitanze che fanno effetto.
La vittoria dei francesi contro Gubitosi potrebbe somigliare, però, a quella di Pirro, perché la risposta all’offerta di Kkr, al di là di tutti i salamelecchi imposti dalle regole di governance e architettati dai consulenti per guadagnare di più, dipenderà esclusivamente dal governo e dalla sua decisione di esercitare o meno i diritti che derivano dal golden power bloccando o autorizzando l’Opa. E poi perché il manager Gubitosi sarà stato un personaggio divisivo, ma capace lo era (lo è).
Intanto, le sue deleghe sono passate al presidente Salvatore Rossi, anche perché il manager dimissionario resta in consiglio, e non era quindi possibile cooptare nessun altro (il numero massimo di consiglieri nominali per statuto è già raggiunto). Il ruolo di direttore generale passa invece a Pietro Labriola, ex Ceo di Tim Brasile, che ha ricevuto anche il mandato di aprire la data room per Kkr e di trattare con il fondo “pretendente”.
Riepiloghiamo. Tim naviga rasoterra come capitalizzazione di Borsa. Vale appena 10 miliardi, una miseria. Quelli di Kkr se ne accorgono. Pensano di poterla gestire meglio. Probabilmente farla riprendere, riprendere quota in Borsa e poi rivenderla a pezzi guadagnandoci un botto: hanno sempre fatto questo, questo sanno fare.
Lanciano l’offerta amichevole e fanno capire – a quanto pare – che sarebbero anche disposti a comprare soltanto la parte dell’azienda che eroga i servizi, e non quella che corrisponde con la rete sia in rame che a banda larga in Italia che serve ancora oltre il 60% delle utenze fisse, sia quella di fibra ottica internazionale, 39mila chilometri su cui viaggiano i dati degli italiani e di tutta Europa, controllata da Telecom Sparkle.
Offrono un prezzo modesto: 0,505 euro per azione. Vivendi si precipita a dire che a questo prezzo la sua quota – determinante per il controllo del gruppo, “pesa” per ben il 24% ed è stata comprata a oltre 1 euro per azione – non la vende. Il governo italiano, che attraverso la Cassa depositi e prestiti ha il 10% di Tim, tace. Fa solo trapelare che sta valutando il da farsi, sia rispetto all’offerta in sé sia rispetto alla possibilità di condizionare l’eventuale esercizio dell’Opa allo scorporo e nazionalizzazione della rete.
Questo è quanto. Un’azienda sventrata dall’Opa del ’99 e poi dalla cattiva gestione di quasi tutti i suoi azionisti di riferimento – Tronchetti escluso perché almeno aveva pensato di accasare Telecom con Sky, idea giustissima – finisce oggi a basso prezzo dapprima nelle mani di un semiconcorrente francese che non vuole farla crescere, ed ora forse di un fondo Usa che la vuole smembrare. Un brutto vedere, un tristissimo autogol del Paese. Unica cosa da fare, ma proprio obbligatoria: riprendiamoci la rete e lasciamo andare Tim dove capiterà. Tanto peggio che adesso, appesa al nulla, sarà difficile.
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