Se la distopia non è al centro di un’opera, ma ne è uno sfondo, ha ancora senso? Perché se di racconti che immaginano futuri alternativi e mediamente orrendi sono pieni cinema e librerie, è anche vero che di solito tutto ruota in torno a quei futuri, a come fare per resistere o sopravvivere, a come spezzarne le catene eccetera. Time to Hunt invece no.



Nel film di Yoon Sung-hyun la distopia è appunto il contesto: una Corea del Sud nella quale il won è crollato, rendendo tutti poverissimi. In questo contesto si muovono i protagonisti rapinatori i quali si ritrovano a festeggiare l’uscita del carcere di uno di loro. Siccome il bottino della precedente rapina non ha più valore e le loro vite rischiano di essere un inferno decidono di progettare un ultimo colpo e poi fuggire. Il colpo a una grande casa di gioco d’azzardo funziona, ma i derubati si vendicano: assoldano un killer per rintracciarli.



Yoon (anche sceneggiatore) parte da un dramma fanta-sociale, costruisce un film di rapina e poi approda a un thriller serrato, cambiando registro e direzione del racconto praticamente ogni mezz’ora, rilanciando l’interesse e la suspense. Ed è in questo contesto di puro genere che il film, presentato alla Berlinale e distribuito su Netflix, si riconnette alla domanda sulla distopia.

Perché Time to Hunt sceglie la caccia all’uomo come punta della sua articolata costruzione e, come abbiamo visto in The Hunt di recente, la caccia all’uomo è la modalità narrativa preferita dalle recenti distopie o almeno nelle opere che racconti perversioni politiche, una modalità che unisce l’oppressione dei potenti (di solito il Governo) contro i deboli alle regole del gioco di cui la contemporanea narrativa fantascientifica si nutre avidamente.



Perché cosa sono i racconti distopici degli ultimi anni, da Hunger Games in poi e a partire dal seminale La pericolosa partita, se non le espressioni più lampanti della tendenza della nostra società a raccontare il gioco e dei cittadini a voler essere giocatori anche in contesti non ludici? Non a caso, nel suo andamento Yoon sceglie di guardare alle atmosfere di certi videogiochi di sopravvivenza e dei meccanismi narrativi appropriati al contesto, appunto. E poi sarà anche un mero sfondo, ma Time to Hunt usa l’escamotage distopico per raccontare (come molto cinema orientale recente, anche in Corea del Sud come dice Parasite) la povertà del proprio Paese e la corruzione, senza farne pamphlet politici, ma mettendo in chiaro come ci sia sempre un potere più grande e più forte pronto a sfruttare e schiacciare, in cui anche il killer può passare da emissario del Male a pedina da sacrificare.

A tutto questo, Yoon unisce professionismo tecnico e senso del ritmo, della tensione e dello spettacolo (lunghissima sparatoria finale compresa), gusto del gesto tecnico che guarda persino all’horror mettendoci dentro l’amore per John Carpenter e Michael Mann, facendo in modo che Time to Hunt diventi un film nel suo piccolo ineccepibile. E in cui si può dire molto anche attraverso le pieghe del contesto.