In America, dunque, la democrazia è abbandonata ai suoi istinti. Il suo cammino è naturale e i suoi movimenti liberi. Là bisogna giudicarla”. Non si deve pensare che Tocqueville con La democrazia in America abbia voluto da una parte esaltare un modello che gli è totalmente estraneo, per formazione e per storia o, dall’altra, demonizzarlo. Certo, non si possono non intravvedere i lasciti di una cultura personale, il costante riferimento con la sua madre patria e gli influssi che le vicende pressanti di quegli anni, che permeano l’intera opera e che costituiscono la premessa metodologica per l’altra sua grande opera: L’antico regime e la rivoluzione (1856).



Tuttavia è tale il fascino della scoperta che essa prende il sopravvento, diviene materia di studio, di scavo, dissezionamento e ricomposizione. Se già l’assetto istituzionale americano con le sue articolazioni suscita in Tocqueville interesse e stupore, è certamente la natura della democrazia americana che più lo muove ad analisi accurate e per taluni versi innovative, con intuizioni di psicologia sociale e sconfinamenti nell’antropologia. Il secondo libro dei tre è certamente il più interessante e insieme il più difficile da intendere in un’Europa che ancora deve curarsi le ferite o trovare i giusti sbocchi di un trauma qual è stata la rivoluzione e il giacobinismo. Si tratta per Tocqueville di rintracciare “per quali vie proceda” il potere del popolo (e la relativa sovranità), “quali ne siano le tendenze e le passioni; quali molle segrete lo spingano, lo ritardino o lo dirigano nella sua irresistibile marcia; infine quali effetti produca la sua onnipotenza e quale avvenire gli sia riservato”.



La prima questione riguarda il tema della “maggioranza” come forza propulsiva di ogni decisione ed entità pseudopolitica che attende (o meglio chiede e spinge) di essere tradotta in politica. Lo scavo porta innanzitutto a delineare la natura dei partiti in America, natura assai differente dal corrispettivo francese che dall’89 al ’94 (anno in cui cade la testa di Robespierre) ha caratterizzato la nazione francese. Anche in questo caso pare valere nell’analisi tocquevilliana quanto già detto a proposito della democrazia: in America il movimento è dal basso verso l’alto, la forma, cioè, prende atto della sostanza, mentre in Europa, in Francia in particolare, il movimento è opposto, la forma pretende di circoscrivere la sostanza, di orientarla, di modellarla.



Alla base del modello americano di partito vi è insomma un’esigenza pre-politica, assai naturale e inscritta nell’altrettanto naturale socialità che caratterizza l’uomo: “Sopravviene, per esempio, un ingombro nella pubblica strada, il passaggio è interrotto, la circolazione arrestata: subito i vicini si costituiscono in corpo deliberativo e da questa improvvisata assemblea uscirà un potere esecutivo che rimedierà al male, prima ancora che l’idea di un’autorità preesistente agli interessati si sia presentata all’immaginazione di alcuno”. È il momento germinale di quella che Tocqueville individua come l’elemento chiave dell’associazione politica negli Stati Uniti, che si fonda su due diritti/poteri inalienabili e, anch’essi, naturali: il diritto di dire (e di scrivere) e il diritto di riunirsi.

“Vi è infine nell’esercizio del diritto di associazione in materia politica un ultimo grado: i partigiani di una stessa idea possono riunirsi in collegi elettorali ed eleggere dei mandatari che li rappresentino in una assemblea centrale”. Ora, se “in America la libertà di associazione a scopi politici è illimitata”, non v’è dubbio – scrive Tocqueville – che proprio questo sconfinamento, per quanto pericoloso, costituisca l’unico antidoto contro i germi di quella che egli chiama “la tirannide della maggioranza”. Insomma a un rischio si oppone un altro rischio: “L’onnipotenza della maggioranza rappresenta un tale pericolo per le repubbliche americane che il mezzo pericoloso di cui ci si serve per limitarla mi pare ancora un bene”. Inoltre, “questa libertà, così pericolosa, offre su un punto delle garanzie: nei paesi dove le associazioni sono libere, sono sconosciute le società segrete. In America ci sono dei faziosi ma non dei cospiratori”.

È, quello che traccia Tocqueville, il profilo di una democrazia istintiva, povera di eccellenze intellettuali, di pensiero fondativo, di pratica rodata, di tradizione, “dell’arte di misurare i mezzi pur volendo sinceramente un fine”: tutti fatti che spingono “ad allontanare le persone superiori dalla carriera politica”, ad escludere ogni forma di pensiero critico (“In America la maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’interno di quei limiti lo scrittore è libero, ma guai a lui se osa sorpassarli”). Insomma, anche la cultura in America ha un che di convenzionale, di rituale.

Vi sono, a ben vedere, tutti i presupposti per una deflagrazione latente dello Stato americano e della sua società. Ma non è così. Molti elementi, anche in questo caso sovrastrutturali, concorrono ad evitare che la “tirannide della maggioranza” divenga un elemento eversivo. Innanzitutto quel sentimento di patria che Tocqueville definisce “noioso”; quindi il benessere diffuso, la mancanza di una vera capitale, la forma federale, la forza delle istituzioni comunali, il potere “correttivo” dell’ordinamento giudiziario e, soprattutto la religione, intesa in America innanzitutto come istituzione politica. Portata in America da uomini e donne che “si erano sottratti all’autorità del papa”, arricchita in seguito dall’emigrazione cattolica di provenienza irlandese, la religione, o meglio lo spirito religioso, non ha mai nutrito sentimenti di ostilità nei confronti delle istituzioni democratiche americane; semmai, proprio per la natura stessa della società americana, ha avuto un’influenza politica indiretta ma efficacissima: dirigendo i costumi e “regolando la famiglia” essa ha lavorato “a regolare lo stato”.

È dunque innanzitutto sul piano dei costumi che la religione, protestante o cattolica (in America fa assai meno differenza che in Europa), svolge la sua funzione politica, facilitando e governando l’uso personale che ciascuno fa della libertà: “Non so – scrive Tocqueville – se tutti gli americani hanno fede nella loro religione, (…), ma sono sicuro che la credono necessaria alla conservazione delle istituzioni repubblicane”, a tal punto – annota lo storico francese – che un ateo dichiarato, non potendo giurare sulla Bibbia, non fu ammesso alla testimonianza in un processo poiché “aveva distrutto precedentemente tutta la fede che si potesse prestare alle sue parole”. Nel dominio incontrastato della maggioranza, anche la religione diviene uno degli elementi della dieta necessaria a mantenere l’equilibrio politico di un organismo fondato sulla libertà e sull’uguaglianza, per sua natura fragile. In tale menu, la religione perde tuttavia la sua natura di “dottrina rivelata” per assumere il ruolo chiave di “opinione comune”.

In fondo, verrebbe da chiedersi, non ci troviamo di fronte ad una riedizione “democratica” dell’antico instrumentum regni? In realtà, anche in questo caso, tante sono le differenze con l’antica Europa. E ancora una volta non è dall’alto che si cerca il controllo delle masse e il loro asservimento brandendo i simboli religiosi. Qui non vi è un despota che usa. Qui vi è un popolo che sente l’esigenza politica di credere, quasi un “come se…” che prende possesso di ogni settore della vita pubblica, perfino della cartamoneta, senza il quale libertà ed eguaglianza, alias democrazia, perderebbero un collante significativo e cadrebbero presto in infinite deflagrazioni. Quel che avviene nel segreto di ogni anima è questione assai poco significativa. Semmai, il compito di uno sguardo totalmente rivolto al cielo, è affidato alle numerosissime sette che si sottraggono a questa responsabilità istituzionale e che, pur se minoranza, costituiscono in nuce il vero elemento eversivo americano.

Anche Dio, insomma, ricade sotto il dominio di quelle che Tocqueville chiama “le idee generali”, per cui gli americani “mostrano inclinazione e gusto” perché “permettono allo spirito di comunicare giudizi rapidi su di un grande numero di oggetti insieme” anche se, d’altra parte “gli forniscono sempre solo nozioni incomplete, facendogli perdere in esattezza ciò che guadagna in estensione”. Di conseguenza all’americano pare che “tutte le verità applicabili a se stesso” siano “applicabili ad ognuno dei suoi concittadini o dei suoi simili”.

Siamo già nel cuore del terzo libro de La democrazia in America che inaugura la seconda parte dell’opera, pubblicata un quinquennio dopo la prima, e dedicato in gran parte agli effetti che l’esperienza democratica ha sulla cultura e sull’intelletto, sulle scienze, sulle arti e sulla lingua. È la parte forse meno interessante dell’opera e, infatti, alla sua uscita, non riscosse il successo dei primi due libri. Due capitoli della prima parte del terzo libro attirano tuttavia l’attenzione: il XIII (Fisionomia letteraria dei secoli democratici) e il XVI (Come la democrazia americana ha modificato la lingua inglese).

Figlio del proprio tempo, Tocqueville traccia un quadro negativo delle letterature “democratiche”, additando tuttavia l’esatto percorso che poi avrebbero intrapreso, uscendo dall’aristocrazia delle forme e delle convenzioni: “Presa nel suo insieme la letteratura nei secoli democratici non può presentare, come nei tempi dell’aristocrazia, l’immagine dell’ordine, della regolarità, della scienza e dell’arte; la forma sarà in essa generalmente negletta e, talvolta anche disprezzata. Lo stile si mostrerà sovente bizzarro, scorretto, sovraccarico, quasi sempre ardito e veemente. (…) I brevi scritti saranno più frequenti dei grossi libri, lo spirito prevarrà sull’erudizione, l’immaginazione sulla profondità; regnerà nel pensiero una forza incolta e quasi selvaggia”.

Quanto alla lingua, “il primo strumento del pensiero”, Tocqueville, che non si sottrae allo sciovinismo linguistico proprio del suo Paese (“preferirei – dice tuttavia – che si imbastardisse la lingua con parole cinesi, tartare o urone, piuttosto che rendere incerto il senso delle parole francesi”) riconduce la democrazia lessicale a quella passione che gli Stati democratici hanno per le “idee generali” che “allargano e nascondono il pensiero” dissolvendolo nelle nebbie dell’astrazione. È in questa vaghezza che proliferano le parole della politica, dei commerci, dell’industria che mai si sedimentano, ma stanno sempre all’erta. Perché le lingue democratiche “non sanno mai se l’idea che esprimono oggi converrà alla situazione nuova che avranno domani”. Insomma, “una parola astratta è come una scatola a doppio fondo: vi si mettono le idee che si vuole e le si ritirano senza che nessuno se ne accorga”.

(2 – continua)