La questione della razza attraversa la cultura francese per oltre un secolo. Liquidata con il mito del buon selvaggio dagli illuministi alla Diderot e alla Rousseau, rispunta a metà Ottocento come questione cruciale da una parte nel Tocqueville de La democrazia in America e dall’altra nell’Essai sur l’inégalité des races humaines del conte Arthur de Gobineau. Quasi coetanei, sicuramente amici, i due sono tuttavia divisi dal giudizio storico sulle diversità di razza che caratterizzano il genere umano e soprattutto sulle implicazioni relazionali tra i popoli nel momento in cui, le diverse razze, entrano in contatto.



L’esperienza americana di Tocqueville permette la prima vera disamina moderna di tale rapporto, soprattutto proietta sul futuro luci significative. E Gobineau, che ha subìto il destino, per certi aspetti ingiusto, di teorizzatore del moderno razzismo, fino a farne un ispiratore dello stesso Mein Kampf hitleriano, non sottovaluta la lezione tocquevilliana, individuando proprio nell’esperienza americana – scrive Francesca Castradori in Le radici dell’odio – “lo spirito germanico dello Yankee, benché non propriamente puro, [che] rifiuta unioni per lui degradanti. Egli sente ancora in sé l’istinto conquistatore ariano, che lo spinge ad annientare i pellerossa, pur affettando qualche scrupolo ipocrita”.



Diversamente da Tocqueville, Gobineau non ritiene che l’America costituisca un modello di democrazia e soprattutto nega che possa essere un modello esportabile. Anzi, nell’uomo del Nuovo mondo, anch’egli eterogeneo ed esportato, Gobineau, con freddezza analitica individua, seguendo Tocqueville sulla strada delle idee generali e sulla teoria della creatività linguistica americana in chiave utilitaristica, “la sua natura razionale e amica delle forme legali [che] gli ha fatto trovare mille sotterfugi per conciliare il grido dell’equità col grido, più imperioso ancora, di una rapacità senza limiti. Ha inventato parole, teorie, proclamazioni per scusare il suo comportamento. Può darsi che abbia riconosciuto, nel profondo della sua coscienza, l’improprietà di queste misere giustificazioni. Non ha tuttavia cessato di perseverare nell’esercizio del diritto d’invadere tutto, che è la sua prima legge, e la più nettamente incisa nel suo cuore”.



Paradossalmente, come si può vedere, il “grande araldo del razzismo”, per usare le parole di Léon Poliakov, arriva nella sua disamina ad un lucido punto critico nei confronti dello pseudo arianesimo americano, più di quanto lo stesso Tocqueville, troppo fiducioso nelle dinamiche democratiche e nello sviluppo progressivo dell’umanità, sia disposto a concedere. Soprattutto perché il punto di vista tocquevilliano affronta la questione razziale in termini di “pericolo” per la democrazia americana.

D’altra parte Tocqueville, contrariamente all’amico, coglie la sostanziale problematicità che l’elemento afro-americano, rispetto al popolo autoctono (i pellerossa), costituisce e costituirà per il nuovo Stato. Il quadro analitico prende le mosse dalla constatazione che “gli uomini sparsi in questo spazio non formano come i popoli d’Europa altrettanti rami della stessa famiglia, ma si scoprono subito fra essi tre razze naturalmente distinte e potrei dire nemiche”. Il tono tocquevilliano risente ancora, in alcuni passaggi, dell’umanitarismo sincero, ma forse un po’ snob, di derivazione illuminista: “Fra questi uomini così diversi, il primo che attira l’attenzione, il primo per cultura, potenza, benessere, è l’uomo bianco, l’uomo per eccellenza; sotto di lui appaiono il negro e l’indiano”. Razze sfortunate – annota – queste ultime, senza comunità d’origine, di lingua e di costumi, ma riunite in una “comune sventura”, vittime entrambe della medesima tirannide.

Degli indiani, Tocqueville, coglie l’ineluttabile destino dell’estinzione. La descrizione è degna di Diderot: “Quando gli indiani abitavano da soli le regioni da cui oggi vengono cacciati avevano scarse necessità; fabbricavano da soli le loro armi, bevevano solo acqua e si vestivano solo di pelli degli animali di cui mangiavano la carne”. Purtroppo, prosegue lo storico, le lusinghe della civiltà, la chiamata dei commerci, il miraggio delle ricchezze messe sotto i loro occhi dai bianchi, li hanno condannati ad inevitabile sparizione. Insomma, tratti dall’Eden di cui erano padroni e signori e importati nel sistema politico-sociale del nuovo mondo, gli è toccato di vivere ciò che nemmeno i conquistatori spagnoli erano riusciti a realizzare: il loro sterminio. E tutto a suon di legalità: gli americani degli Stati Uniti hanno raggiunto tale obiettivo ”con una meravigliosa facilità, tranquillamente, legalmente, filantropicamente, senza spargimento di sangue, senza violare uno solo dei grandi principi della morale”. Ovviamente Little Big Horn (1876) ancora doveva accadere.

Tocqueville coglie invece che la questione dei neri è ben più complessa. Se “gli indiani morranno nell’isolamento in cui hanno sempre vissuto, (…) il destino dei negri è in certo modo allacciato a quello degli europei” americanizzati. Anzi, proprio la presenza di questa razza, essa stessa importata, sebbene suo malgrado, costituisce per Tocqueville “il maggiore di tutti i mali che minacciano l’avvenire degli Stati Uniti” a tal punto che “mi sembra dunque che coloro che sperano che gli europei si confonderanno un giorno coi negri accarezzino una chimera”. Anzi, prosegue, il “pregiudizio di razza” appare più forte e radicato proprio “negli stati che hanno abolito la schiavitù che in quelli in cui ancora esiste”. Così, coerentemente con la grande passione degli americani per i “principi generali” e con la relativa loro propensione a disattenderli, ecco che “in quasi tutti gli stati in cui la schiavitù è abolita si sono concessi ai negri i diritti elettorali, ma se uno di loro si presenta per votare rischia la vita”.

Con sguardo prospettico, Tocqueville non ha dubbi che, proprio “l’abolizione della schiavitù nel Sud farà crescere la ripugnanza che la popolazione bianca ha per i neri”. Dunque: “non si deve forse concludere che negli stati del Sud i neri e i bianchi finiranno presto o tardi per entrare in lotta?”. E se tale lotta costituisce il vero incubo per l’americano bianco, al punto da spingere alcune società cosiddette filantropiche a tentare di riesportare i neri in Africa nel nuovo Stato chiamato Liberia (in dodici anni ne sono partiti 2.500 e ne sono arrivati 700mila), l’epilogo che Tocqueville intravvede è in linea con il suo umanitarismo paternalistico: “Se si rifiuta la libertà ai negri del Sud, questi finiranno per impadronirsene violentemente; se la si accorda loro, non tarderanno ad abusarne”, e soprattutto con il suo pathos politico: la questione razziale sarebbe divenuta, prima o poi, fonte di gravi pericoli per l’Unione”. (Candeloro).

Non si creda, ammonisce Tocqueville, che un eventuale scontro interno, sulla questione in oggetto, faccia riferimento al piano dei principi. Tutt’altro. Gli americani si muoveranno soltanto se sospinti da passioni forti o dal sovvertimento delle abitudini conquistate e consolidate. Insomma, “la schiavitù non attacca dunque direttamente la confederazione attraverso gli interessi, ma indirettamente attraverso i costumi”.

Il tema della tenuta dello Stato, si allarga tuttavia. La questione razziale non è la sola a minare la complessa tessitura federale. Innanzitutto gioca a sfavore la crescita demografica ed economica di alcuni Stati ed il relativo peso specifico politico; quindi la moltiplicazione degli appartenenti all’Unione “tenderà fortemente a rompere il legame con l’Unione”. Ma – sottolinea Tocqueville – “il più grande pericolo che corre l’Unione ingrandendo viene dallo spostamento continuo di forze che si opera nel suo seno” cosicché “fra qualche anno dunque la direzione dell’Unione sfuggirà completamente agli stati che la fondarono e gli abitanti del bacino del Mississippi avranno la preminenza nei consigli federali”.

Il contrasto crescente tra Stati poveri e Stati ricchi, il divario profondo tra Stati culturalmente avanzati e Stati fermi nell’istruzione e nell’evoluzione sociale, tra Stati industrializzati e Stati a vocazione agricola, porterà inevitabilmente a tensioni profonde. Rievocando i principi fondamentali da cui l’America ha trovato le proprie origini, non sarà sul piano delle libertà, ma su quello dell’eguaglianza, che ci si dovranno attendere le scosse destabilizzatrici alla giovane democrazia.

Certo il tempo aggiungerà diversi strati di complessità alle questioni individuate dal giovane osservatore europeo, intriso di cultura europea e di politica europea, che tuttavia riesce per primo a cogliere l’anomalia americana, il suo carattere particolare, le sue realizzazioni politiche e i suoi limiti culturali. L’inevitabile spocchia che radica nel vecchio continente è temperata dallo stupore per un modello di società fino ad ora sconosciuto. E se nella stampa e nella sua libertà senza limiti Tocqueville (pur non avendone simpatia) vede uno strumento essenziale di controllo e di limitazione dei danni che una politica senza baricentro può provocare, agli storici americani, pur privi di materia prima, rimprovera una certa “dottrina della fatalità” che se penetrasse “nello spirito pubblico, è facile prevedere che paralizzerebbe subito il movimento delle società moderne e cambierebbe i cristiani in turchi”.

La democrazia in America racconta, dunque, non solo i meccanismi costituzionali, le architetture istituzionali e amministrative del nuovo mondo, ma quel sotterraneo movimento, singolare e plurale, che muove ogni uomo e molti uomini riuniti in un corpus che chiamiamo sociale, in cui si frullano – provocandone un composto affatto nuovo e diverso – tutti gli elementi che definiscono la vita, mortale e ultraterrena, dell’essere umano. Una lezione storiografica che arriverà a Jules Michelet e, perché no?, perfino alle soglie delle Annales. E che soprattutto aiuta a comprendere, al di là delle convenzioni politiche e culturali, il mistero americano.

(3 – fine)