All’inizio dell’estate ho letto il libro curato da Romano Montroni, edito da Longanesi, dal titolo “I libri ti cambiano la vita. Cento scrittori raccontano cento capolavori”. Montroni, famoso libraio di Bologna, ha chiesto a ognuno dei cento prescelti, tutti noti al grande pubblico, di indicare il libro che ha cambiato la loro esistenza o che quantomeno l’ha influenzata.
In diversi hanno indicato Guerra e pace di Lev Tolstoj. Così, quale amante di Dostoevskij, ho messo da parte un mio vecchio pregiudizio e ho ripreso in mano dopo trentacinque anni l’indubbio capolavoro di Tolstoj, di cui avevo anche letto, sempre negli stessi anni, Anna Karenina, Resurrezione e il racconto breve La morte di Ivan Il’ič. Quindi materiale sufficiente per dare fondamento al mio poco amore verso lo scrittore da sempre contrapposto a Dostoevskij.
Poco amore a dir la verità attenuato dopo la lettura anni fa dell’interessante libro di George Steiner, uno dei più importanti e influenti critici letterari contemporanei, scomparso lo scorso febbraio, intitolato Tolstoj o Dostoevskij, che ha il merito di tratteggiare le differenze e la complementarietà fra i due scrittori, senza stabilire supremazie. Proprio su quelle che io considero le diversità fondamentali fra i due autori vorrei soffermarmi perché, secondo me, queste segnano ancora fortemente il pensiero delle nostre società, almeno di quelle occidentali.
In qualche modo il “campo di battaglia” da loro disegnato è rimasto invariato. Prima però vorrei riportare alcune utili note di cronaca: Tolstoj e Dostoevskij, pur essendo quasi coetanei, non si erano mai incontrati (forse avevano incrociato i loro sguardi una sola volta in occasione di una cena alla presenza di molte altre persone), però leggevano gli scritti l’uno dell’altro, tant’è che Tolstoj negli ultimi giorni di vita portava con sé I fratelli Karamazov; la moglie di Tolstoj ebbe a dichiarare che se il marito avesse conosciuto Dostoevskij ne avrebbe tratto sicuro giovamento; durante la fuga che lo condusse alla morte, Tolstoj si era fermato davanti al monastero di Optìna-Pustyn’, a Kozelsk, vicino al convento di Shamardino, dove si trovava sua sorella Marija monaca ortodossa.
Era tentato di entrarvi, ma dopo aver tergiversato per diverso tempo in prossimità dell’ingresso, sotto lo sguardo stupito dello Starec Amvrosij (padre Zosima de I fratelli Karamazov) che lo aveva osservato dallo spioncino, aveva desistito; nei giorni successivi, colto da un malore durante il viaggio in treno, fu costretto a fermarsi nella piccola stazione di Astàpovo. Lì Tolstoj in fuga, dalla moglie e dai figli, morirà dopo sei giorni circondato dai suoi seguaci, che pare evitarono che lo scrittore comunicasse con alcuno: che cosa ne sarebbe stato di loro se Tolstoj in punto di morte avesse sconfessato il suo pensiero? La sua fu la prima morte a grande impatto mediatico, seguita dai mass media dell’epoca istante per istante, persino da cineoperatori, benché il cinema fosse agli albori.
La prima differenza fra i due scrittori che voglio evidenziare riguarda la concezione dell’uomo. Tolstoj vive ossessionato dall’idea di creare un mondo ispirato alla semplicità dei Vangeli. Lui cristiano, senza riconoscere la divinità di Cristo, vuole a tutti i costi liberare l’uomo dal peccato. Per lui solo la natura e l’infanzia sono scevri dal male. Ossessionato dalla morte, alla quale non riesce a dare una risposta risolutiva, la ritiene comunque l’unica capace di far trionfare lo spirito sulla carne, la corporeità è considerata un ostacolo alla purificazione: “Al solo sollevare gli occhi al cielo Pierre non avvertiva più la degradante bassezza di tutto ciò che è terreno, in confronto all’altezza a cui si trova la sua anima” e il principe Andrèj, gravemente ferito sul campo di battaglia di Austerlitz, con il viso rivolto sempre al cielo sussurra: “Come mai non ho visto prima d’ora questo cielo così alto? E come sono felice adesso che lo vedo! Sì, tutto è vuoto, tutto è inganno, al di fuori di questo infinito cielo. Nulla esiste, nulla di nulla, al di fuori di esso. E neanch’esso esiste, nulla esiste, eccetto il silenzio e la calma. E ne sia ringraziato Iddio!”.
Diversamente da Tolstoj, che si rifugia nell’etica come cura al nichilismo esistenziale, Dostoevskij non ammette un bene a priori sia pur ispirato da principi evangelici. Ne è così convinto da affermare che ogni pretesa di portare il paradiso in terra in realtà darebbe luogo all’inferno. Per Dostoevskij non c’è il male assoluto e per sempre, in ogni istante l’uomo fa esperienza del paradiso e dell’inferno come conseguenza di una propria azione. Ritiene l’uomo il più grande mistero esistente e cercare di indagarlo è l’unico motivo per cui vale la pena vivere. Dostoevskij crede alla divinità di Gesù e la familiarità con Lui gli permette di abbracciare con uno sguardo d’amore ogni uomo e ogni essere vivente con le loro ferite. Non cerca la purezza, ma solo la salvezza.
La seconda differenza sta nel ruolo che Tolstoj e Dostoevskiji danno alla libertà. Napoleone Bonaparte, figura centrale in Guerra e pace, pur esercitando sul popolo russo una forte attrattiva, resta il male da cui ognuno deve liberarsi. Per Tolstoj la libertà non è un bene assoluto, ha valore solo se mossa da un’esigenza morale. Ciò che invece è per Dostoevskij. Raskol’nikov, il protagonista di Delitto e castigo, vuole essere come l’Imperatore francese, ne giustifica anche i crimini per un bene più alto, trovando così una giustificazione al suo omicidio della vecchia usuraia.
I protagonisti dei romanzi di Dostoevskij non pongono mai un freno ai propri desideri, e perseguendoli fanno l’esperienza del bene e del male. Solo un fattore esterno può indirizzare la libertà verso una strada di redenzione. Come accade per Raskol’nikov nell’incontro con Sonja.
Quindi, per concludere, mi sento di affermare che un uomo impegnato con il senso della propria vita non può non prendere in considerazione le domande radicali di Tolstoj, così come non può non considerare le risposte fondate sull’esperienza proprie di Dostoevskij.