Il colpo d’occhio è impressionante. E’ l’intervallo tra il terzo e il quarto tempo della partita di football del 7 ottobre 2017 tra i padroni di casa, i Florida Gators, e le Fighting Tigers della Louisiana. Il Ben Hill Griffin Stadium di Gainesville è gremito in ogni ordine di posti. La marching band dell’università ha appena finito, come da tradizione, di suonare We Are The Boys From Old Florida, ma nessuno si aspetterebbe un medley con un’altra canzone. Incertezza e stupore, che durano solo pochi istanti, poi novantamila persone, all’unisono, cominciano a cantare quei versi che tutti conoscono a memoria: “Hey baby, there ain’t no easy way out / Hey, I will stand my ground / And I won’t back down”. E’ il commovente tributo a Tom Petty, nativo di quella Gainesville e morto inaspettatamente appena cinque giorni prima, poco dopo l’ultimo di tre concerti a Los Angeles, chiusura in gloria del suo “40th anniversary tour”. Ed è quello che appare come l’inizio di una nuova tradizione, perché da quel momento in poi, durante l’ultimo intervallo della partita, il rituale a casa dei Gators diverrà sempre questo: omaggiare la memoria del loro più illustre cittadino con una delle sue canzoni più belle: I Won’t Back Down.



Sembrava contento, Tom Petty, negli ultimi giorni della sua vita, nonostante avesse concluso il tour in condizioni fisiche precarie; poco fiato, per via di una pneumopatia cronica, ed in lotta coi dolori di una frattura dell’anca che aveva richiesto robuste dosi di oppiacei: “sono felice e guardo al futuro – aveva detto – mi sento come se fossi in vetta al mondo”, non sapendo che quel futuro sarebbe stato davvero breve. Morte per arresto cardiaco, miscela pericolosa, si dice, di psicofarmaci ed analgesici, ma anche “unfortunate accident”, come ha concluso l’anatomopatologo, come a dire che ognuno se ne va semplicemente quando è giunta la sua ora.



A guardarlo sul palco, come in quello straordinario concerto del 2006, ancora nella sua Gainesville, reso immortale dal film documentario Runnin’ Down A Dream, Tom sembrava sempre lieto, con quel dolce e perenne sorriso, sotto i capelli biondi lunghi e lisci, così comunicativo sia col pubblico che con gli altri musicisti, a partire dai suoi, gli Heartbreakers, una delle più grandi rock’n’roll band di tutti i tempi. Ogni volta sembrava passasse come una gratitudine, una gioia di vivere che contagiava tutti. Era capitato anche a Bob Dylan, che lo aveva scelto, nel 1986, per accompagnarlo in Australia, Giappone e Stati Uniti nel suo True Confessions Tour e poi in Europa l’anno dopo. Nel riascoltare adesso quei concerti e nel vedere gli spezzoni dei filmati, vi si ritrova un Dylan assai vitale, capace di riappropriarsi del proprio patrimonio. Eppure, come ebbe modo di raccontare anni dopo in Chronicles, la sua autobiografia, era letteralmente a pezzi: “Tom stava dando il meglio di sé ed io il peggio. Le mie stesse canzoni mi erano estranee. Non avevo la capacità di toccare i loro nervi scoperti, non riuscivo a scendere sotto la loro superficie. Adesso con Petty si trattava di arrivare alla fine del mese, dopo di che avrei detto basta. Lo specchio aveva fatto un giro su se stesso ed io vedevo il futuro, un vecchio attore che rovista nei bidoni della spazzatura fuori dal teatro dove una volta aveva trionfato”. Ma quell’episodio la dice lunga sulla sofferenza che spesso non traspare dal viso delle persone. Sofferenza che non aveva risparmiato neppure Tom, che avrebbe conosciuto il dramma della droga, all’indomani, nel 1996, del fallimento del suo primo matrimonio e che avrebbe lottato a lungo col male del secolo, il “cane nero” che attanaglia la vita di tante persone, senza distinzioni di ceto, razza e cultura.



C’è un termine – “heartland rock” – che come tutte le classificazioni ed etichette, appare a prima vista per lo meno inadeguato: nessun artista, specie i più grandi, può essere racchiuso dentro confini stretti; ma quei due termini messi insieme, terra e cuore, che sembrano descrivere la poetica di Petty come quella di Springsteen, Steve Earle e John Mellencamp, sembra ben definire il percorso di musica e di vita di Tom. Fin da quando, bambino di dieci anni folgorato dalla visione di Elvis Presley, aveva capito che era possibile, anche per lui, inseguire un sogno. Quel sogno americano, trovato poi per anni sotto il palco, centinaia di show, soprattutto nella sua America, per migliaia e migliaia di cuori perennemente spezzati ma sempre battenti, mai veramente in frantumi, fieri delle proprie radici e di un’appartenenza che ti dice che vale sempre la pena di andare avanti, perché anche i perdenti – even the losers – prima o poi avranno la loro occasione fortunata.

E così quel sound ed i personaggi delle canzoni di Petty avevano accompagnato tutti in questi anni. Come scrisse efficacemente Bill Flanagan, per Tom, “tradizionalista del rock”, era importante “la continuità nel cambiamento”, e così la sua musica era capace di riassumere la capacità melodica dei Beatles – quelli che, all’indomani della loro comparsa in tv all’Ed Sullivan Show, lo avevano davvero convinto a fare il musicista – le radici legate a Chuck Berry ed Elvis Presley, l’indimenticabile jingle jangle sound dei Byrds, le accelerazioni rock degne degli Stones e del suo patrimonio sudista, fino alla composizione di un unico marchio di fabbrica, uno stile musicale a sua volta originale e cristallino. Un tesoro americano, come è stata efficacemente intitolata la raccolta di inediti messa insieme dai familiari di Tom ed uscita nel 2018, che va ad affiancare una discografia di quarant’anni e nella quale è difficile individuare punti deboli. Ed ora, quella appena pubblicata – un doppio cd intitolato “The Best Of Everything” – sembra davvero l’antologia definitiva delle sue migliori canzoni, capace di tenere col fiato sospeso per due ore e mezza anche chi ha già ascoltato tutti i suoi dischi.

C’è una bella frase, che appare subito a prima vista nel bel libretto che accompagna l’album, che descrive Tom come maestro nell’arte della confidenza, raggiunta nel momento in cui le parole delle canzoni scompaiono per lasciare posto ad un dialogo tra amici, conversazione fatta solo di verità. Come a dire che percorrere le canzoni di questo greatest hits e quindi l’intera sua carriera – partendo dalla band d’origine, i Mudcrutch, ritrovata poi anche nel mezzo del cammino degli Heartbreakers, e senza ignorare anche i prodotti da solista – vorrebbe avere addirittura questo tipo di ambizione. Ci si può provare allora – inutile nominare una per una le canzoni del disco, una collezione di successi che rendono ragione della presenza di Tom Petty nella Rock And Roll Hall Of Fame – magari aiutati dalle note del libretto scritte da Cameron Crowe, con la certezza che, alla fine, si tratterà proprio di un bel viaggio. Fino ad arrivare a For Real, l’ultima canzone del disco, una composizione inedita, incisa da Tom nel 2000, e che suona ora come la confessione giunta proprio al termine della sua vita: “I didn’t do it for no magazine / Didn’t do it for no video / But I did it for real (…) Might’ve done it for my sanity / Maybe done it for my vanity / Could be I did it for my picky goal / But I did it for real / And I did it for you, too”.

“Le canzoni sono me – aveva detto Tom Petty un giorno, come raccontato ancora nelle note allegate al disco – e quando guardo verso il pubblico, non vedo te o loro: sono io. Non salgo sul palco per mettere in scena Tom Petty e poi tornare a casa come un’altra persona”. Come a dire che il segreto di tutto, in fondo, è molto semplice: gettare via le maschere ed andare a caccia di un io che è un tu, e viceversa, per proseguire degnamente il nostro cammino, ciascuno semplicemente dietro al proprio destino e con un unico e solo compito: follow that dream. Un sogno di bellezza per la nostra vita.