Comprensione e analisi

1. Nel testo tratto da Istruzioni per l’ uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà (minimum fax, Roma 2014, pp. 46-48) di Tomaso Montanari, si afferma che entrare in relazione con l’arte e con ciò che ha creato l’ uomo (“entrare in un palazzo civico, percorrere la navata di una chiesa antica, anche solo passeggiare in una piazza storica o attraversare una campagna antropizzata”) equivale a “entrare materialmente nel fluire della Storia”, cioè camminare su quella strada segnata dai nostri avi, condividendone “speranze e timori”. Significa quindi diventare “membri attuali di una vita civile” in uno spazio già immaginato e creato per noi dal passato.



Il patrimonio artistico diventa per Montanari il luogo “concretamente tangibile” dove sono condensate “le vite, le aspirazioni e le storie collettive e individuali” dei nostri padri.

Per sostenere questa tesi Montanari espone come argomento principale la possibilità del dialogo, dell’incontro con le generazioni passate. Questo incontro è possibile tra l’uomo e tutta la tradizione culturale, ma il patrimonio artistico e il paesaggio diventano i luoghi concretamente tangibili più vitali: “L’identità dello spazio congiunge e fa dialogare tempi ed esseri umani lontanissimi”, non in un “attualismo superficiale”, non in un tutto uguale quindi, ma in un continuo dialogo dove le differenze diventano “eloquenti e vitali”.



Ed è proprio in questo continuo dialogo che ci si libera “dalla dittatura totalitaria del presente”, e ci si trova immersi contemporaneamente in passato presente e futuro.

Diventa importante dunque contrastare il processo che trasforma il passato in “Un intrattenimento fantasy antirazionalista”: l’esperienza tangibile dell’arte non offre “una visione stabilita, una facile forma di intrattenimento” ma è “palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e frammenti” in un rapporto che “ci induce a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi”, che “relativizza la nostra onnipotenza”. La “via umanistica” permette quindi il “cortocircuito col futuro” nel continuo dialogo con il patrimonio culturale.



2. L’ autore polemizza con la “dittatura totalitaria del presente”, cioè la mentalità della nostra epoca che si trova “divorata dal narcisismo e inchiodata all’orizzonte cortissimo delle breaking news” perché essa tende all’appannaggio della vera natura dell’uomo, tenendolo inchiodato ad un singolo momento, uomo che invece è strutturalmente mortale e fragile ma inserito in un flusso eterno che è il flusso che va dal passato all’ora, al dopo. Egli contesta la visione del presente come un punto fermo, fisso, e la mentalità che vende il passato come un “intrattenimento fantasy antirazionalista”.

3. Il passato veicolato dall’intrattenimento televisivo, “che ci viene somministrato come attraverso un imbuto” è un passato “rassicurante, divertente, finalistico”. Quello invece con cui veniamo a contatto attraverso la fruizione diretta del patrimonio storico, artistico e culturale è un passato “pieno di vuoti e frammenti”. Il passato televisivo “ci sazia, e ci fa sentire l’ ultimo e migliore anello di una evoluzione progressiva che tende alla felicità”; il secondo invece è “irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi”. Ciò significa che il primo è una pillola dolciastra che tende ad azzerare il dramma dell’umano, illudendoci e donandoci uno strano senso di effimera soddisfazione, annientando completamente però il bagaglio di dramma, di umanità, di sofferenza e gioia vera di cui è strutturalmente composto l’uomo. Il secondo invece aumenta la ferita, lo strappo tra l’uomo del passato e del presente, tra l’uomo e l’altro da sé, ma ci induce a “cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti”, “relativizza la nostra onnipotenza”. Il secondo diventa quindi l’ unico vero varco di apertura con il futuro contro una proposta sterile che più che un dialogo umano propone “un intrattenimento fantasy antirazionalista”.

4. Il patrimonio culturale per Montanari crea una “concatenazione di tutte le generazioni”, quindi un legame con un passato “glorioso e legittimante” e un futuro lontano, fino all’eterno, “finché non si spenga la luna”. L’ uomo in questa concatenazione diventa l’elemento centrale: è contemporaneamente colui che si trova catapultato nella storia e quello che la sta creando. Non si tratta solo dell’occupazione di uno spazio fisico, perché nel dialogare con l’arte ciò che entra in gioco è la condivisione di sé: si tratta di uno scambio, è “immaginare i sentimenti, i pensieri, le speranze dei miei figli, e dei figli dei miei figli, di un’umanità che non conosceremo” perché essi “calpesteranno le stesse pietre” e i loro occhi come i nostri “saranno riempiti dalle stesse forme e dagli stessi colori”.

 5. L’ ammonimento di Salvatore Settis “la bellezza non salverà proprio nulla, se noi non salveremo la bellezza” è a tutti coloro che ripetono e citano continuamente la frase di Dostoevskij (che in questo caso diventa semplicemente emblematica di una certa mentalità) per cui “la bellezza salverà il mondo”. Occorre sentirsi ed essere responsabili della bellezza! Occorre “promuoverla”, contro la mentalità sterile che sembra prevalere oggi.

Occorre che gli adulti siano insegnanti, che non solo si ripeta ad alta voce una bellissima frase, ma nel modo in cui ci si pone di fronte alla realtà e alla generazioni più giovani, ci si senta responsabili di quella bellezza e del modo in cui quella viene  afferrata. Occorre educare alla bellezza. Perché è troppo facile abbandonarsi alle facili forme di intrattenimento, e costa fatica, perché costa sé stessi, ma vale la pena educare i bambini a guardare e a domandare. E occorre prendersi cura della bellezza, preservandola dal tempo. I movimenti devono quindi essere due: preservare ciò che abbiamo, curando il passato che diventa luogo in cui ritrovarsi, e promuovere la creazione di bellezza. 

Produzione

“Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio”: è sempre stata grande la commozione nel leggere cosa scriveva Machiavelli a Francesco Vettori solamente cinque secoli prima che io fossi qui. Perché anche io, venuta la sera, “mi ritorno a casa”, ed entro nel mio scrittoio, o passo di fronte ad una cattedrale, o ascolto musica classica, e respiro. Mi spoglio anch’io “quella veste cotidiana, piena di fango e di loto”. “Entro nelle antique corti delli antiqui huomini”, li cerco, busso alla porta, non per un’esigenza particolare di cultura, ma per ritrovare me stessa. Cerco quel cibo “che solum è mio e ch’io nacqui per lui”: non mi vergogno come Niccolò a parlare con loro, a chiedere loro la ragione delle loro azioni, e non mi annoio, “tutto mi trasferisco in loro”: nel 1513 come nel 2019 c’è qualcosa che lega me e Machiavelli, e Dante, e le cattedrali.

Come scrive Montanari, quello che accade è un legame con “un passato glorioso e legittimante, ma anche con un futuro lontano”, accade di riconoscersi con gli occhi “riempiti dalle stesse forme e dagli stessi colori”. Non riesco ad entrare nelle cattedrali e a non vedere lì, lo scultore che modella, che incide, intaglia, plasma. Non riesco a non vedere il ferro incandescente che taglia le lastre.

Credo che “la bellezza salverà il mondo” per un semplice motivo: la bellezza salva l’uomo, lo rende vivo. È come quando ci si innamora: di fronte a due occhi bellissimi come ci si può non sentire vivi? L’ arte è un tripudio di occhi bellissimi, entrare in una cattedrale, ascoltare l’Ouverture delle Nozze di Figaro di Mozart, è un tripudio di occhi bellissimi.

Accade una condivisione di “speranze e timori” afferma Montanari. Io aggiungerei che è come sentirsi profondamente amata da tutti i padri che hanno creato per me qualcosa che oggi in un momento di pieno stupore mi rende viva. Creare un’opera d’arte è uno slancio di immortalità nel sentirsi mortali. Guardare la bellezza è come guardare un amico. Pavese ne Il mestiere di vivere scrive dell’ esigenza misteriosa che ha l’uomo di un “oltre in cui versarsi e poi bervi sé stessi”: “Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra riavere noi dagli altri”. È quello che accade con un’opera d’arte: riavere noi da quella.

L’ affermazione di Dostoevskij e quella di Settis per quanto riguarda la mia esperienza non sembrano affatto contraddirsi, anzi, la seconda mi sembra conferma e valore aggiunto alla prima. Bisogna essere uomini, per avere a che fare con la bellezza, perché essa possa smuoverci, bisogna essere veri, leali, non censurare il bisogno dell’umano. Poi, bisogna preservare la bellezza a tutti i costi. Ciò significa non solo avere cura di ciò che i nostri grandi amici del passato ci hanno donato, ma promuoverla, sicuramente partendo dalle nuove generazioni, dai bambini. Forse piuttosto che far rimanere i ragazzini incollati alla tv, bisognerebbe portarli a teatro più spesso, perché quel posto possa diventare casa più della tv e dei cartoni animati.

Salvare la bellezza è aprirsi al reale. Mi è stata data la grande possibilità di portare in scena le Nozze di Figaro (in una versione un po’ semplificata) nelle scuole elementari e medie insieme ad una compagnia di cantanti lirici. Gli stessi bambini che “tanto son bravi” (voci indistinte di adulti poco intelligenti) ad essere incollati al computer, e al cellulare, erano con gli occhi spalancati di fronte alla bellezza e alla simpatia della musica di Mozart. Eppure non parliamo di Arte “semplice” (anzi la musica lirica è una forma molto complessa per tutti). È bastato esserci. Di sera abbiamo proposto degli spettacoli più complessi per i genitori dei bambini. Con stupore di tutti: i bambini erano lì a rivedere l’ opera lirica.

C’ è qualcosa di estremamente universale nell’arte (in tutte le sue infinite forme), “per tutti”, cioè che corrisponde al cuore dell’ uomo. La sfida è avere gli occhi aperti e la disponibilità a stupirsi.

Caro Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” e caro Settis, è estremamente vero: “la bellezza non salverà proprio nulla, se noi non salveremo la bellezza”. Però, forse dobbiamo partire facendo un passo indietro, o più profondo, cioè dobbiamo essere disposti a guardare, a commuoverci, a entrare in dialogo. Insomma, dobbiamo essere disposti a lasciarci salvare. 

Chiara Maria De Micheli

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