Il figlio del grande virologo Carlo Urbani, colui che di fatto fermò la Sars, è stato ospite in studio del programma di Rai Uno, Oggi è un altro giorno. “Mio padre è divenuto famoso per il suo ultimo gesto – dice Tommaso Urbani – ma c’è tutta una vita prima. Sin da piccolo ha sempre avuto una passione nell’aiutare chi aveva bisogno, partendo dalle cose più semplici, ed è sempre stato appassionato di medicina, laureandosi dopo una specialistica in malattie infettive. Ha sempre saputo quello che avrebbe voluto fare. Nel 1996 partì per la prima missione con Medici senza Frontiere, poi tornò in Italia e ricevette in seguito la proposta dell’Oms di diventare direttore malattie infettive nel sud est asiatico, una proposta che aveva sempre sognato”. Quindi è arrivato il 2003, quando il mondo conobbe la Sars proprio grazie a Carlo Urbani: “Eravamo ad Hanoi, in Vietnam, mio padre era fra i maggiori esperti di malattie infettive al mondo, lavorava per l’Oms ma non lavorava più sul campo. Lo chiamarono per una influenza sospetta e lui capì subito che era qualcosa di sconosciuto”.
TOMMASO URBANI, FIGLIO CARLO: “FINO ALL’ULTIMO LAVORO’ PER COMBATTERE LA SARS”
A quel punto Carlo Urbani, come racconta il figlio Tommaso, mise in moto subito la macchina per contenere l’epidemia: “Iniziò a creare protocolli, il tracciamento dei contatti, mise in piedi tutta una serie di procedure. Riuscì anche a convincere i governi a chiudere le frontiere, ma quando andò a Bangkok venne contagiato”. Il suo lavoro non si era però ancora esaurito: “Anche in ospedale, da malato, continuava a sopportare i colleghi per trovare una soluzione. Essendo medico sapeva che stava correndo un forte rischio, una delle ultime cosa che disse ai colleghi fu ‘Se non dovessi farcela prelevate campioni dei miei polmoni per studiare il virus’”. Tommaso Urbani ha aggiunto: “Non avrei mai pensato che sarebbe andata così perchè lui era il più forte, è stata dura perchè avevo perso il padre e poi dovetti abbandonare la vita in Vietnam. Mia madre rimase al suo fianco nonostante fosse contagioso. Tutto quello che lui ha fatto lo ha fatto con coscienza e lo rifarebbe, noi non ci saremmo messi di mezzo, lui era un medico e ha semplicemente fatto il suo lavoro, forse anche di più, fino all’ultimo. Ha dato un grande contributo alla comunità scientifica”. Quindi, in conclusione, Serena Bortone ha chiesto a Tommaso Urbani cosa gli ha trasmesso il padre: “Mi ha trasmesso questo, essere pronti e disponibili verso il prossimo, con azioni quotidiane senza necessariamente essere medico”.