La guerra dei virologi ci ha accompagnato dall’inizio della pandemia. Per i media è stato più facile presentare posizioni tra loro in parziale dissenso come scontri epocali, con la stessa modalità con cui si mettono uno contro l’altro i politici. In questo caos spesso è sfuggito, come ci ha ricordato il professor Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano e direttore sanitario della Fondazione Istituto “Sacra Famiglia” di Cesano Boscone (Milano), che “la scienza procede per errori e confutazioni”. Ed è attraverso questo sistema, con l’osservazione empirica, che i medici hanno capito come contrastare il virus.
Sul palcoscenico mediatico è stato più facile bollare come negazionista qualunque medico parlasse di un Covid meno allarmante rispetto a marzo. Oppure dire che chi esprimeva un’opinione lo faceva senza basi solo perché non faceva riferimento a studi che avevano ricevuto la peer review (revisione tra pari, ndr) necessaria alla pubblicazione nelle riviste scientifiche. Peccato che i medici in corsia non potessero aspettarla: dovevano agire. “In fase emergenziale faccio con quello che ho”, ci ha detto Pregliasco. Insieme al virologo, abbiamo ripercorso le tappe che hanno condotto a capire quali farmaci usare e quali misure prendere per uscire dall’incubo di marzo, mentre l’opinione pubblica veniva suggestionata da scontri televisivi tra scienziati più utili allo share che a un’informazione corretta.
Anche se in molti hanno smentito Zangrillo, che ha parlato di un Covid “clinicamente inesistente”, i dati dicono che morti e terapie intensive, in Italia, sono crollati.
Solo l’1% dei malati è grave: se ne abbiamo 20mila contemporaneamente si notano, se invece sono solo 200 avremo un solo caso grave. Ha ragione Zangrillo a dire che ora ci sono pochi casi, è quello che vedo anche nel mio ospedale.
Come abbiamo imparato ad arginare il Covid? Ci sono dei farmaci che hanno dato buoni risultati?
Qualcosa ci ha aiutato. Come il Remdesivir, un farmaco per ebola che in alcune situazioni si è dimostrato vantaggioso. Anche l’eparina è stata utile per combattere le trombosi create dalla polmonite, disastrose per i pazienti. A oggi non ci sono terapie risolutive, ma la capacità di agire meglio.
Come si è sviluppata la conoscenza per uscire dalla crisi? Non si poteva certo aspettare la peer review necessaria alla pubblicazione degli studi scientifici.
Assolutamente no: nell’emergenza provo con quello che ho. L’uso di farmaci è stato necessario, anche se non avevamo certezza della loro efficacia. Come è accaduto con l’idrossiclorochina. Inizialmente è stata utilizzata ma studi più larghi ci hanno mostrato che è meglio evitarla, in particolare per i rischi cardiaci a cui espone il paziente. Ma non basta un singolo trial per capirlo. Ci vogliono più studi che si susseguono e precisano il quadro.
Ma in quei momenti non si potevano aspettare i tempi della certezza scientifica.
No, e in quel caso scattano due meccanismi. Nel primo si usano farmaci fuori richiesta, cioè non autorizzati. Oppure, come accaduto col Remdesivir, si usano in “uso compassionevole” farmaci che non sono neanche mai stati registrati. Ci tengo a ricordare che la registrazione non è un passaggio burocratico, ma è uno step volto a valutare il rapporto rischio beneficio per la protezione dei pazienti. Io stesso ho contribuito a sviluppare dei vaccini antinfluenzali, e ci abbiamo messo 6 anni a ottenere l’approvazione: la ricerca è questo.
Però adesso sembra che molti italiani non vogliano neanche il vaccino contro il Covid. La giudica una conseguenza di come è stato gestito sui media il dibattito interno alla comunità scientifica? E inoltre, non era inevitabile che ci fossero opinioni discordanti su un virus nuovo come questo?
La discussione interna al mondo scientifico ci sta. Sui media però è scattata l’infodemia, con i singoli ricercatori che hanno espresso la propria opinione basata sulle loro personali esperienze, influenzata dalle loro sensibilità. In quei casi gli aspetti psicologici, diversi da medico a medico, sono diventati fondamentali.
È stata colpa dell’informazione?
Il discorso scientifico è stato esposto in tv con lo schema della politica. I giornalisti tendono a mettere in risalto le differenze.
E allora si è provveduto a contrapporre Galli a Zangrillo per fare audience.
In questa situazione tantissimi si sono messi a parlare. È vero, Zangrillo, nel suo ospedale, ha visto una situazione nettamente migliorata, ma anche questa non può essere una visione complessiva.
Ma non è vero, come ha detto Zangrillo, che hanno parlato troppo anche medici che non avevano vissuto in corsia la fase più dura della pandemia?
L’errore è stato etichettarci tutti come virologi, mentre c’è chi si occupa del laboratorio, chi di epidemiologia, chi cura le persone in terapie intensive e chi a casa, tutti virologi tra virgolette. A occuparsi del tema troviamo anche dei veterinari. Chiamarli tutti virologi è stato grossolano, perché tutte queste figure hanno competenze tra loro complementari.
(Lucio Valentini)