Ci risiamo. È tornato il momento della legislazione elettorale. Nell’accordo di governo Pd-M5s c’è il sì al taglio dei parlamentari (quello che dovrebbe farci risparmiare 100 milioni all’anno per le poltrone risparmiate e farcene spendere 200 in referendum) in cambio dell’aggiustamento alla legge elettorale. È il nuovo scambio sulle politiche costituzionali. Quello precedente – con la Lega – era stato taglio dei parlamentari più referendum in cambio di autonomia differenziata. Sappiamo come è andata a finire. L’autonomia differenziata – che è stata una delle tante prese in giro della riforma del 2001 – è ferma al palo. Dopo le letture precedenti, il taglio dei parlamentari richiede solo un voto alla Camera. Basta poco, insomma, e la Repubblica si rinnova, come ci annunciava qualche giorno fa il ministro Di Maio. In cambio il Pd, usando il migliore dei suoi linguaggi istituzionali, ha richiesto, e ottenuto, “per riequilibrare”, un impegno favore di una legge elettorale proporzionale.
Insomma, bisogna riequilibrare. E per riequilibrare – non si capisce cosa e perché, visto che per evitarsi il problema basterebbe non squilibrare e lasciare le cose come stanno – bisogna tornare al proporzionale. Devo dire che sentire questo mi ha fatto correre un brivido lungo la schiena. E non tanto per timore verso le sorti della Repubblica (mi sono rassegnato da un pezzo), quanto per il pensiero che mi toccherà cominciare a risentire discorsi vecchi come il mondo, che mi sembravano falsi e pretestuosi già venticinque o trenta anni fa, quando si parlava di passaggio dal proporzionale al maggioritario come qualcosa di necessario per risolvere i problemi della vita democratica del paese ed altre amenità del genere.
Erano i tempi della Grande Riforma prossima ventura, che abbiamo visto ampiamente all’opera in quest’ultimo quarto di secolo. E già allora avevo l’impressione che chi proponeva i vantaggi del maggioritario lo facesse perché riteneva che la parte politica cui rispondeva ci avrebbe guadagnato qualcosa. Erano gli anni appena prima di Tangentopoli e a proporre queste cose erano intellettuali e maestri del Psi, del Pci (non tutto), e dei partiti laici, che ci avrebbero perso, mentre la buona e vecchia Dc nicchiava, a parte certe sue frange pensosamente autodistruttive (distruttive della Dc e del paese: non della loro carriera, che infatti è proseguita ininterrotta sotto altre insegne e sotto altri padroni).
Adesso è il momento del contrordine. Per risolvere i problemi della vita democratica del paese bisogna tornare a quel proporzionale del quale la cosa migliore che si diceva, 25 anni fa, era di essere fonte e origine della partitocrazia che avvelenava il paese; della cronica instabilità dei governi; della contrattazione indegna tra le forze politiche; del voto di scambio; degli accordi stato-mafia; dell’inefficienza delle partecipazioni statali; della corruzione morale del paese, eccetera.
Tralascio il resto per rispetto del lettore. Ricordo solo che a dire queste cose erano, anagrafe permettendo, esattamente gli stessi che adesso si sono messi d’accordo per riportarci al proporzionale. O, nel caso in cui l’anagrafe sia stata matrigna e il tempo abbia imposto il suo tributo, i loro allievi ed eredi politici.
Insomma, basta avere un po’ di memoria e ci si accorge che la polemica contro “la Casta” di oggi è solo un’involuzione dei discorsi di trent’anni fa sulla partitocrazia. E che il populismo di cui si parla a vuoto oggi un tempo veniva proposto come ricetta riformatrice e salvifica dagli stessi che oggi, trent’anni dopo, ci parlano di proporzionale. Merita riportare per intero quanto si diceva nella quarta di copertina di un fortunato libretto di quei tempi:
“È necessario ‘restituire lo scettro al principe’, vale a dire consentire ai cittadini, elettori e utenti, di esercitare con maggiore incisività i loro poteri democratici. Bisogna ridisegnare la Costituzione con l’obiettivo specifico di fare contare di più i cittadini, i gruppi che si organizzano, i movimenti, a partire dal sistema elettorale e rafforzando gli strumenti di democrazia diretta. È questa la via per superare l’attuale situazione di stallo, in cui i partiti colonizzano le istituzioni e soffocano la società civile, il governo abusa dei decreti-legge e non sa attuare un programma, le procedure parlamentari sono lente e farraginose, la classe politica è poco rappresentativa delle esigenze e delle preferenze dei cittadini, l’accentramento politico impedisce il dispiegarsi delle potenzialità autonomistiche, il sistema proporzionale riproduce il potere dei partiti e rende impossibile l’alternanza”.
Ecco, restituire lo scettro al principe è stato il ritornello di quella stagione, ovviamente partendo dal presupposto che se l’invocazione al popolo la faccio io sono un sincero democratico. Se la fai tu sei un pericoloso populista da isolare e disprezzare. Davvero aveva ragione Carl Schmitt a dire che tutti i concetti elaborati dalla scienza politica non sono altro se non armi politiche da impiegare contro l’avversario.
Ora, essendo passati diversi anni da allora, uno degli esercizi che trovo sempre divertente fare è contare e mettere in ordine i sistemi elettorali che abbiamo avuto dopo quella stagione. Aiuta a mettere le cose nella giusta prospettiva. Nell’ordine, abbiamo avuto:
1) un maggioritario con una quota del 25% di proporzionale, il Mattarellum del 1993, che avrebbe dovuto darci i governi di legislatura immaginati da quegli stessi signori che scrivevano le cose appena ricordate;
2) il Porcellum del 2006, pensato per avvelenare i pozzi della maggioranza che sarebbe venuta e del quale si è detto male quasi quanto del vecchio proporzionale puro della Prima Repubblica;
3) un sistema elettorale transitorio, scritto dalla Corte costituzionale nel gennaio 2014;
4) l’Italicum del 2015 partorito dal genio riformatore della coppia Renzi-Boschi;
5) un sistema elettorale transitorio uscito dall’annullamento dell’Italicum nel gennaio 2017;
6) un sistema elettorale che è l’inverso del Mattarellum, e cioè è un proporzionale con correzione maggioritaria, battezzato Rosatellum, con il quale siamo andati a votare il 4 marzo 2018 e che ci ha portato all’attuale bella composizione delle Camere.
Aggiungendo a questi sei il vecchio proporzionale della Prima Repubblica, impiegato per l’ultima volta nel 1992, scopriamo che, da allora ad oggi, in 27 anni abbiamo avuto in vigore 7 – dico 7 – sistemi elettorali diversi. Neanche uno ogni cinque anni, che dovrebbe essere la durata di una legislatura. E, siccome non voglio infierire più di quanto non lo facciano i fatti, mi astengo dal contare come due sistemi elettorali autonomi quelli usciti dai referendum del 1991 e del 1993.
Mi astengo dal ricordare i referendum pensati per abrogare l’effetto abrogativo della legge di abrogazione del Mattarellum (tradotto in italiano: il referendum per ripristinare il Mattarellum). Mi astengo dal rammentare le questioni sulla impugnabilità della legge elettorale in Corte costituzionale. Mi astengo dal ricordare la questione delle circoscrizioni estero perché tutte queste cose ormai fanno parte del folklore del diritto costituzionale.
Mi stupisco solo che, 27 anni dopo, 7 sistemi elettorali dopo, e diverse biblioteche dopo, si riesca ad annunciare al mondo, e senza vergogna, che ora si ritorna al proporzionale. E che nessuno con un minimo di consapevolezza di questi ultimi 27 anni scoppi serenamente a ridere.
Ma siccome gli antichi ci hanno insegnato che dalla meraviglia nasce la filosofia, bisogna riconoscere che c’è molto di serio in questa proposta. Tornare al proporzionale – come si mira a tornare – non ci riporterà alla Prima Repubblica. Semplicemente esaspererà e bloccherà l’assetto uscito dalle ultime elezioni. Ciò di cui pochi si sono accorti nella campagna elettorale dell’inverno 2017/2018 è che si trattava di una campagna in un sistema non più maggioritario fatta però con i metodi del maggioritario. Il risultato è stato che partiti che si sono cordialmente insultati per qualche mese si sono dovuti mettere assieme per fare una coalizione. A proporzionale restaurato, tutti i governi saranno governi di coalizione tra due partiti e cespugli vari, che germoglieranno con una velocità impressionante. E a star meglio saranno i cespugli neocentristi, che potranno stare con gli uni con gli altri e saranno determinanti per arrivare al 51-53%. Tant’è vero che Renzi è già pronto a partire con il suo partitino regionale, tenendo però un piede nel Pd.
Le crisi torneranno ad essere frequentissime per ottenere qualche rimpasto o qualche ministero, a maggioranza invariata. Faranno tutti le stesse politiche di ossequio all’Europa, perché altrimenti i mercati ci puniranno e nessuno avrà la forza di proporre alternative praticabili alla sudditanza politica ed economica verso il Centro dell’Impero Europeo. Chi contesterà l’assetto attuale dei rapporti sarà marginalizzato perché estremo, come lo è stato il vecchio Msi o il Psiup.
Se non si riuscirà a fare un Governo, ci sarà sempre l’opzione del Governo del Presidente che, in nome della salus rei publicae, governerà, sempre in nome e per conto della “tenuta dei conti”. La presenza di una delegazione del Quirinale al Governo, a tutela dell’interesse europeo, che ha caratterizzato il Conte 1, e che ha segnato una mutazione irreversibile della nostra forma di governo, diventerà una consuetudine.
Chissà se ci ridaranno anche le buone vecchie preferenze di lista. O ci sarà un bel listone a posizioni predefinite in segreteria di partito, come abbiamo oggi. Io sospetto resterà il listone.
Ma la cosa peggiore saranno i dibattiti sulla nuova legge elettorale: dibattiti che dovranno essere lunghi, pensosi e complessi. Perché, per andare ad elezioni il più tardi possibile, che è poi l’unica ragion d’essere di questo governo, questa legge dovrà essere approvata il più tardi possibile. Approvata però dagli stessi che trent’anni fa volevano restituire lo scettro al principe. Siamo davvero un paese di smemorati.