Essere sicuro che i capi-azienda applichino al meglio la strategia dell’azionista di riferimento – ossia lo Stato – nelle imprese pubbliche ad essi affidate; ed essere sicuro, in caso di controllo della maggioranza assoluta del capitale, che la trasmissione del comando dall’azionista-governo all’impresa sia riflessa nella composizione maggioritaria del consiglio di amministrazione dell’impresa stessa: cosa non scontata in un Paese come il nostro, talmente malridotto moralmente e politicamente da aver più volte visto consiglieri designati da un governo nella componente di maggioranza dell’organo amministrativo di un’impresa pubblica, passare a votare contro le delibere perché nel frattempo il governo era cambiato e la loro componente politica non era rimasta nella nuova maggioranza.



Sembrano essere questi due i criteri-guida che Mario Draghi, presidente del Consiglio, esperto come pochi in nomine pubbliche in forza dei suoi undici anni al ministero del Tesoro come direttore generale, sta seguendo in queste ore per scegliere i nomi dei nuovi manager da insediare nelle prime fra le oltre 500 società pubbliche di cui si devono appunto rinnovare i vertici.



Due metodi, anzi due facce dello stesso metodo, che descrivono l’approccio sostanzialista e pragmatico per il quale ormai Draghi sta acquistando fama. Quel che conta sono due cose: che il capo-azienda risponda a chi lo ha scelto, quindi il premier col ministro dell’Economia, perché è loro la responsabilità della buona gestione aziendale; e che i consigli – pur nel rispetto della loro autonomia – restino coerenti con le strategie di chi li ha scelti, salvo ovviamente dissensi motivati, professionali ma non politicamente pregiudiziali.

Al di fuori di questi binari le nomine secondarie – presidenti senza poteri, consiglieri di minoranza e, ancor più, prime e seconde linee manageriali, che per esempio i renziani infeudarono al 100% senza pietà – verranno relativamente lasciate come libera preda ai partiti, che potranno così, salvando il decoro (si spera) piazzare lì qualche loro pedina.



Sotto la guida di questi criteri anche il lavoro di cernita dei cacciatori di teste, nelle passate tornate di nomine più una foglia di fico che altro, acquista decoro.

Ancora nelle ultime ore della serata di ieri le voci si rincorrevano a Roma sui papabili per le prime poltrone in lizza, quella del vertice delle Ferrovie e della Cassa depositi e prestiti. Ma senza alcuna affidabilità. Quest’anno il totonomine langue, rispetto alla tradizione: perché lo stile laconico del premier, unito però alla sua palese tendenza a esercitare fino in fondo e senza consultazioni tutte le prerogative che gli competono e sulle quali sa di essere perfettamente in grado di far da sé, hanno spento i gossip.

Indubbiamente se c’è un terreno dove Draghi ha pratica, quello sono le nomine: dal ’91 al 2001, Draghi ha diretto il più grande e potente ministero d’Italia con ben undici governi, pilotando nel frattempo la privatizzazione di un totale di asset pubblici dal valore di oltre 150mila miliardi di vecchie lire. E firmando centinaia se non migliaia di nomine.

Insomma, è uno che non ha paura di scegliere. Dopo di che, nessuno è perfetto, visto che fu lo stesso Draghi, da governatore della Banca d’Italia, a nulla eccepire (giusto per fare un esempio) sull’acquisizione-monstre della Banca popolare antonveneta da parte di un Monte dei Paschi di Siena già malconcio, almeno a giudicare col senno di poi, e da quell’acquisizione sospinto inevitabilmente nel baratro… Ma insomma, senz’altro Mario Draghi “sa sbagliare da sé”. Il che, per il Manuale Cencelli che ispira da sempre le nomine pubbliche, è già segno di appartenere ad un’altra categoria. 

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