30 anni fa l’arresto di Salvatore “Totò” Riina, il “capo dei capi” di Cosa nostra detto ‘u curtu per via della sua bassa statura, segnò un momento storico nella lotta alla mafia. Ma ancora oggi restano le vibrazioni della polemica innescata dalla mancata perquisizione del suo covo, dove forse si sarebbero trovati preziosi documenti per ricostruire una parabola criminale lunga e densa di delitti eccellenti. Erano trascorsi pochi mesi dalle stragi del 1992 in cui morirono i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e i loro agenti di scorta.



Quel 15 gennaio 1993, quando il boss corleonese “cadde” tra le mani della giustizia dopo una latitanza di 24 anni iniziata nel 1969, Sergio De Caprio, il capitano “Ultimo”, strinse le manette ai suoi polsi concludendo una fase cruciale dell’operazione del nucleo dei Carabinieri dei Ros che guidava e consegnando Totò Riina alla sua sorte giudiziaria. Decisiva per la cattura, la testimonianza dell’ex autista del capomafia, il pentito Balduccio Di Maggio, che aveva già anticipato agli inquirenti di poter contribuire all’arresto. Quel giorno, a Palermo, Totò Riina viaggiava sul sedile passeggero a bordo di una utilitaria guidata da Salvatore Biondino e fu fermato intorno alle 8:30 proprio nelle ore in cui, nel capoluogo siciliano, si insediava a il nuovo procuratore, Gian Carlo Caselli. “La cattura di Riina – ha ricordato quest’ultimo in un articolo su La Stampaè un successo storico straordinario, nonostante l’appendice velenosa della mancata perquisizione del covo“.



Dopo l’arresto di Totò Riina la bufera sul covo mai perquisito

L’arresto di Totò Riina arrivò come svolta storica nell’antimafia, in quel processo di innovazione investigativa fatta di pedinamenti, agenti infiltrati e racconti dei pentiti avviato dall’intuizione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la creazione, nel 1974, del primo Nucleo Speciale Antiterrorismo della storia italiana. Ma il successo dell’operazione firmata dal capitano Ultimo a Palermo nel 1993 passò attraverso una bufera di proporzioni talmente grandi da insinuarsi tra le maglie delle cronache senza mai esaurirsi del tutto. Luci e ombre di una vittoria dello Stato che non smette di alimentare dibattiti e riflessioni. Il procuratore generale di Cagliari Luigi Patronaggio, all’epoca alla Dda di Palermo, al Corriere della Sera ricorda l’arresto e il caso esploso poco dopo. Ad accendere la miccia delle polemiche, la mancata perquisizione del covo di via Bernini, il covo di Totò Riina, nell’immediatezza della cattura. Quel luogo, culla di chissà quali segreti di mafia, sarebbe stato ispezionato solo alcuni giorni più tardi, quando ormai la villa sarebbe stata svuotata e ripulita.



Questo evento, come ricostruisce Ansa 30 anni dopo l’arresto del “capo dei capi”, infiammò la polemica tra Procura e Carabinieri e sfociò in un processo che si concluse con l’assoluzione dall’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra per il vicecomandante del Ros, Mario Mori, e il capitano “Ultimo” Sergio De Caprio. Totò Riina rimase dietro le sbarre fino alla sua morte, avvenuta il 17 novembre 2017. Nella sua impressionante regia di omicidi e stragi, anche la fine del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, morto nell’agguato di via Carini, a Palermo, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo nel 1982, esattamente 11 anni prima del suo arresto. Sulla vicenda del covo di Riina mai perquisito si insinuarono veleni e sospetti. Così Patronaggio, ancora ai microfoni del Corriere, ricalca quel momento: “Era tutto predisposto con i carabinieri del comando provinciale schierati, le macchine pronte e pure gli elicotteri. Ma all’improvviso si decise di sospendere l’operazione adottando la strategia dell’attesa e del controllo della base, già sperimentata dai carabinieri di Dalla Chiesa nelle indagini sui terroristi. Tutti concordarono e io, che ero di turno e avrei dovuto occuparmi della perquisizione, mi adeguai a una scelta che poteva avere un senso, se fosse stata perseguita fino in fondo”.