Totò Riina, il “capo dei capi”di Cosa Nostra, è stato arrestato il 15 gennaio 1993 e la fine della sua latitanza, lunga 24 anni, è stata una delle pagine storiche nella lotta alla mafia in Sicilia. Detto ‘u curtu, nato nel 1930 a Corleone, ufficialmente il boss è stato il capo assoluto dell’organizzazione criminale dal 1982 fino al momento del suo arresto, ma per gli inquirenti avrebbe continuato a mantenerne la “regia” in costanza di detenzione senza mai perdere il suo ruolo di vertice. Sono passati 30 anni da quel momento e ancora oggi le ombre sulla sua storia non si sono dissolte.



Totò Riina sarebbe stato individuato e assicurato alla giustizia con un’operazione plateale, quando Sergio De Caprio, il capitano “Ultimo”, lo ha ammanettato per strada, in pieno giorno nel cuore di una rotonda, consegnandolo alla sua sorte giudiziaria. Determinante, secondo la ricostruzione, si sarebbe rivelata la testimonianza dell’ex autista del capomafia, il pentito Balduccio Di Maggio, che aveva rivelato agli inquirenti di poter contribuire all’arresto del boss corleonese ricercato da decenni. Nelle maglie di quello che è stato un grande successo dello Stato sulla mafia, le polemiche innescate dalla mancata perquisizione del covo del boss in via Bernini, a Palermo, dove nessun inquirente sarebbe entrato a controllare nell’immediatezza della cattura. Un fatto che ha alimentato una bufera tra Procura e Carabinieri, ricostruisce Ansa, sfociata in un processo che si sarebbe concluso con l’assoluzione del vicecomandante del Ros, Mario Mori, e del colonnello Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, dall’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra.



Totò Riina e il silenzio fino alla morte, scontava 26 ergastoli

Salvatore “Totò” Riina, arrestato nel 1993, è rimasto in carcere fino alla sua morte, avvenuta il 17 novembre 2017, un giorno dopo il suo 87° compleanno, mentre si trovava ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Destinatario di 26 condanne all’ergastolo, non ha mai rotto il muro di silenzio che ha avvolto la sua detenzione e non ha mai ammesso i suoi crimini. Per 24 anni è stato al 41 bis e nonostante il regime di carcere duro, secondo gli inquirenti, avrebbe mantenuto vivo il suo ruolo di capo di Cosa Nostra.



Il nome di Totò Riina è legato a decine di omicidi e stragi di mafia tra cui spiccano gli attentati del 1992 a Palermo in cui, prima a Capaci e poi in via D’Amelio, persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riina era noto non solo come ‘u curtu (per la sua bassa statura), ma anche come “la belva” per via della sua brutalità. Diversi soprannomi per un solo, inquietante profilo criminale tra i più feroci e spietati della storia. Il boss corleonese, ritenuto il mandante degli omicidi eccellenti firmati fino ai primi anni ’90 dalla mafia, avrebbe iniziato molto presto la sua ascesa nella “Cupola“. A 19 anni il primo omicidio e una condanna a 12 anni di reclusione, pena scontata parzialmente all’Ucciardone, consumato durante una rissa in cui avrebbe ucciso un suo coetaneo, Domenico Di Matteo. Latitante per circa 24 anni, avrebbe ordinato la ritorsione di Cosa Nostra per le rivelazioni dei collaboratori di giustizia (anzitutto di Tommaso Buscetta) che contribuirono a tessere il maxiprocesso di Palermo in cui furono emesse centinaia di condanne. Riina avrebbe deciso di far eliminare i familiari dei pentiti “sino al 20° grado di parentela”, riporta Adnkronos, senza escludere i bambini e le donne dal mirino. Una controffensiva ai “traditori” che avrebbe visto il boss orientare la sua furia, con ancora più violenza, contro lo Stato: dalle bombe di Roma e Firenze alle stragi di Capaci e via D’Amelio, una scia indelebile di sangue che attraversa il Paese e la nostra storia.