Chi l’è sto Schillaci?”. “L’è ‘l gran visir de tucc i terun!”. Non se la prese, Totò, per questo scambio di battute fra Giacomo e Aldo in una scena surreale di Tre uomini e una gamba, anzi ne rise. Era il 1997, le “notti magiche” di Italia 90 erano tramontate da tempo e la sua folgorante carriera terminava malinconicamente proprio in quell’anno, ma la scia luminosa del capocannoniere mondiale, palermitano classe 1964, 76 reti in 226 partite tra serie A e B (media record di una ogni tre) resisteva ancora nell’immaginario collettivo.



Ieri mattina Salvatore Schillaci, in arte pedatoria Totò, a 59 anni e dopo due di impari partita con il cancro, è stato chiamato dal Grande Allenatore a “buttarla dentro” nel campionato mondiale del Cielo che inizia sempre e non finisce mai. Giusta ricompensa per uno degli ultimi calciatori italiani capaci di farci sognare, indossasse la maglia bianconera o quella azzurra. “Noi della Juve abbiamo avuto la fortuna di entusiasmarci per lui prima che, in quell’incredibile estate del 1990, lo facesse l’Italia intera” ha scritto la società torinese sul suo blog. Perché si fa presto a dare dell’eroe ad un fuoriclasse dello sport, oggi che i campi di battaglia (almeno in Occidente) sono sostituiti da quelli sportivi.



Cresciuto nelle giovanili della sua città natale, passato al Messina quindi a Juventus, Inter e alla giapponese Jubilo Iwata, Schillaci “aveva una voglia di fare gol che non ho mai visto in nessuno”, disse anni dopo Franco Scoglio, allenatore del Messina. Dribbling stretto, capacità di saltare l’uomo (caratteristica di cui, sia detto per inciso, oggi s’è quasi persa traccia tra i cosiddetti attaccanti), fiuto della rete fecero di lui un mito. Poche squadre, carriera compromessa da infortuni e carattere passionale, anche troppo. “Ti faccio sparare” gridò in faccia a Fabio Poli, reo a suo dire di avergli sputato in faccia in un Juve-Bologna dell’11 novembre 1990. Il Mondiale era finito da poco tra molti giubili e qualche amarezza per aver mancato la finale proprio in casa (conquistammo il terzo posto battendo l’Inghilterra 2 a 1, con goal decisivo a 4 minuti dal termine proprio di Schillaci) e quel brutto episodio, di cui si pentì subito pubblicamente (“ho sbagliato, ma mi hanno massacrato come fossi un killer”), segnò l’inizio del suo declino: volessimo fare dell’inutile poesia diremmo che nel mezzo del cammino di sua vita, la diritta via del goal era smarrita. In poco più di un anno, tra 1989 e ’90, Totò aveva dato il meglio di sé, fatto innamorare milioni di tifosi, sognare un futuro di allori in Nazionale e nei club che, però, non sarebbero mai arrivati.



Una banalissima lite, gonfiata ad arte dai mass media, con Roberto Baggio (che ieri alla notizia della sua morte l’ha salutato pubblicamente con un “ciao mio caro amico, anche stavolta hai voluto sorprendermi”), chiuse il discorso alla Juve, dove nel ’92 venne sostituito da Gianluca Vialli. Poco dopo ci si mise anche un fatto privato come la separazione dalla moglie ad intricare la matassa di un’esistenza vissuta sotto i riflettori e bruciata troppo in fretta.

Il mondo del calcio impiega poco a dimenticare, compresso fra troppe partite e troppi interessi, eppure il ricordo di Totò è rimasto vivo più dei suoi errori umani e dei suoi guai fisici. Segno che “Totogoal” è entrato nel cuore della gente e da lì non è ancora uscito. Ed è questo, in fondo, quello che conta.

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