Dalla sanità alla scuola, dai trasporti alle comunicazioni: l’emergenza sanitaria sta creando le condizioni perché di fronte ai problemi economici e sociali la risposta sia univocamente quella di una maggiore presenza dello Stato. Con effetti paradossali. La crisi della sanità, emersa drammaticamente con il maggior numero di vittime per il coronavirus, viene così addebitata (come ha scritto Gino Strada sulla Stampa del 18 dicembre) alle convenzioni con i privati e non al taglio dei finanziamenti pubblici, al mancato adeguamento delle strutture ospedaliere, al disarmo progressivo della medicina territoriale, al rifiuto ideologico e irresponsabile delle risorse messe a disposizione dall’Europa.
Anche la scuola, che in Italia ha subito chiusure e contraccolpi molto più pesanti degli altri Paesi, ha visto una progressiva ostilità verso quel sistema delle scuole paritarie che oltre a garantire un sano pluralismo dell’educazione svolge un ruolo di supplenza e di integrazione.
Ma l’espansione del ruolo dello Stato comporta un doppio effetto negativo. Da una parte ipoteca il futuro dei cittadini con un debito pubblico crescente che mette a rischio redditi e risparmi, dall’altra provoca una progressiva inefficienza della struttura economica portata a sfuggire dalle regole di efficienza ed economicità.
I bilanci del passato sembrano non insegnare nulla. L’esempio più clamoroso è quello dell’Alitalia, dove dopo le diverse gestioni pubbliche o sussidiate degli ultimi anni si continua sulla stessa strada con una nuova ondata di finanziamenti statali.
Si può giocare sulle parole e sulle definizioni, ma la realtà è che di fatto l’Italia rischia di scivolare in un socialismo di fatto anche se nessuno, tranne pochi irriducibili, ha più il coraggio di pronunciare la parola “socialismo” o “comunismo”. Sarebbe probabilmente opportuno richiamare la politica ad alcuni principi basilari, a quegli elementi della cultura che hanno contribuito in maniera fondamentale allo sviluppo del pensiero economico.
È allora significativo che sia stata ripubblicata, con una efficace introduzione di Lorenzo Infantino che ne ha curato anche la nuova traduzione, un’opera fondamentale come “Socialismo” di Ludwig von Mises (ED. Rubbettino, pagg. 640, € 38). Un’opera scritta cent’anni fa, ma che mantiene intatta la sua attualità con la sua critica spietata e intellettualmente argomentata degli attacchi alla proprietà privata dei mezzi di produzione e alla progressiva ingerenza dello Stato nella gestione dell’economia.
“Conosciamo tutti – scrive von Mises – l’immagine dell’apparato amministrativo socialista: una moltitudine senza fine di funzionari, ognuno zelatamente intento a conservare il proprio posto e a evitare che altri possano invadere la propria sfera di attività, ma nello stesso tempo tutti ansiosamente impegnati a scaricare ogni responsabilità su qualcun altro”.
È proprio il tema della responsabilità uno dei punti forti dell’analisi di Mises. Responsabilità come elemento di razionalità e di partecipazione sociale fondato sulla libertà di scelta che porta naturalmente alla migliore allocazione delle risorse sia umane, che materiali. Mises esclude alla radice che sia possibile un calcolo astratto che possa guidare con successo una qualsiasi forma di pianificazione. La prospettiva liberale viene quindi contrapposta a quella che viene chiamata “distruttivista”. “La politica del liberalismo – sottolinea Mises – è il comportamento del padre di famiglia che risparmia e costruisce così per se stesso e per i suoi successori. La politica del distruttivismo è quella del dissipatore, che sperpera ciò che ha ereditato, incurante del futuro”.
I cent’anni che sono passati dalla pubblicazione del libro di Ludwig von Mises hanno dato ampiamente ragione alle tesi di quello è stato uno dei maggior esponenti della scuola austriaca di economia. E va dato merito a Lorenzo Infantino di “ostinarsi” a riproporre questi testi classici del liberalismo, testi su cui i nostri politici farebbero bene a spendere qualche ora del loro tempo. Rinunciando magari agli slogan dei talk show e facendo i conti con la storia, la realtà e la ragione. Ma forse è chiedere troppo.