Finalmente l’inflazione è battuta, l’inflazione sta calando, sia di qua che di la dell’Atlantico. Grande successo delle banche centrali che con la loro sapiente opera hanno di nuovo imbrigliato il peggior nemico dello sviluppo economico. E gli indici azionari di tutto il mondo festeggiano, raggiungendo nuovi massimi con un fine mese tutto al rialzo. Ma…
C’è un “ma” grosso, molto grosso. Come tutti sanno, le banche centrali usano i tassi di interesse per deprimere l’economia reale e in questo modo costringere indirettamente chi vende ad abbassare i prezzi o almeno a non rialzarli e così contenere l’inflazione. Si tratta di un modo rozzo (perché fa soffrire l’economia) ma efficace. Il problema è che non funziona sempre: può funzionare molto bene nel caso di un’economia eccessivamente riscaldata da un eccesso di moneta; ma nel caso di un’inflazione spinta da fattori esogeni (come una guerra o delle sanzioni), l’azione delle banche centrali può avere un effetto limitato o temporaneo. In ogni caso l’economia ne viene a soffrire.
Ed è quello che sta accadendo in maniera brutale, come risultato del più rapido aumento di tassi di interesse dal dopoguerra a oggi (per quanto riguarda la Fed e quindi il dollaro americano). La Bce, anche se con un certo ritardo, ha seguito la stessa strada e i risultati si sono visti: economia tedesca in recessione, condita da un dato pesantemente negativo, cioè un livello di fallimenti aziendali che non si vedeva dal 2020, l’epoca della pandemia e dei lockdown. E se la Germania soffre, il resto d’Europa non può certo sorridere. Anche in Italia l’ultimo dato sulla crescita del Pil la dice lunga: +0,1%.
Anche le cronache riportano dettagli di questa profonda crisi, stavolta causata dal sistema bancario e finanziario non in modo indiretto, come nel 2008, trasferendo all’economia reale la loro crisi; ma in modo diretto, provocato, coscientemente voluto e perseguito tramite l’aumento dei tassi. Negli ultimi giorni è venuto a galla il fallimento del colosso immobiliare Signa, una società controllata da Signa Group, una holding austro-tedesca che possiede un migliaio di aziende nel mondo. L’azienda Signa ha dichiarato circa 2,2 miliardi di debito che non riesce a ripagare. Poi si è scoperto che pure Signa Group è in gravi difficoltà, con debito per 13 miliardi. La banca più esposta con tali prestiti è Bank Austria, che ora appartiene a Unicredit. Uno degli aspetti “belli” della globalizzazione, del mercato globale, è che, quando una azienda entra in crisi, non puoi sapere quali effetti a cascata possa provocare questa crisi, quali altre aziende entrano in crisi.
Altro esempio. Il calo della domanda di acciaio in tutta Europa ha spinto ArcelorMittal, azienda leader nel settore dell’acciaio e comproprietaria dell’ex Ilva di Taranto, a sospendere temporaneamente la produzione nel suo stabilimento in Bosnia. La società ha affermato che il declino è iniziato con l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, ma ha aggiunto che alla decisione hanno contribuito anche l’aumento dei prezzi dell’energia, l’aumento dei costi di produzione e l’aumento dell’inflazione. Già questa affermazione mette in luce come l’inflazione sia solo uno dei fattori della crisi.
E ora che l’inflazione è calata, riprenderà la produzione? Inutile illudersi, quello che i media non dicono è che i prezzi con l’inflazione sono aumentati e ora che l’inflazione è calata i prezzi non aumentano, ma rimangono alti, continuando a opprimere una economia reale dove gli stipendi rimangono al palo (tranne quello dei bancari, grazie al recente rinnovo dei contratti: sarà un caso?). Ma quello che non raccontano è anche l’altro aspetto dell’inflazione, quello positivo. Infatti, l’inflazione colpisce chi possiede denaro, non chi possiede dei beni. Se io avessi 1 miliardo di euro, l’inflazione svaluterebbe il mio denaro; ma se io possedessi immobili del valore di un miliardo di euro, il loro valore in euro crescerebbe con l’inflazione, mantenendo costante il loro valore reale. Inoltre, l’inflazione colpisce chi ha denaro e lo presta, mentre favorisce chi ha debiti perché il valore reale del debito scende nel tempo.
Tale dinamica ha segnato positivamente la situazione finanziaria dei soggetti con maggiore debiti, cioè gli Stati: con la pandemia e poi con le sanzioni, il debito degli Stati è cresciuto in maniera significativa, ma il rapporto debito/Pil, dopo il picco, è migliorato grazie a un aumento del Pil proprio a causa dell’inflazione. Ora però avviene il rovescio della medaglia, con il debito che resta alto e il Pil che non si muove più a causa della depressione economica creata dalle banche centrali. Infatti, ora l’inflazione è calata, ma i tassi di interesse rimangono alti, troppo alti. Hanno paura di abbassarli, perché sanno bene che l’inflazione non è dipesa da un eccesso di moneta, ma da altri fattori (guerra, sanzioni, ecc.) che possono far riesplodere l’inflazione da un momento all’altro.
Quello che occorre è un corposo aumento degli stipendi, in modo che l’inflazione non faccia danni all’economia reale. E se per un periodo l’inflazione sarà più alta della mitica soglia del 2%, questo non sarà un problema per l’economia reale, ma solo per chi ha capitali e li tiene fermi.
Quello che descrivo non è un sogno impossibile, ma un caso reale, quello del Giappone, il quale ha avuto un picco di inflazione del 4% in questi ultimi 5 anni e dove gli stipendi aumentano in media dell’otto per cento ogni sedici mesi e dove lo stipendio medio è di quasi 3.000 dollari al mese. La differenza è così eclatante che Il Sole 24 Ore un anno fa titolava “Mistero inflazione, perché sale ovunque ma non in Giappone?”.
Ma non è un mistero, è solo la conseguenza logica di un aspetto che l’ideologia liberista ottusamente applicata non vuole considerare, perché dovrebbe negare se stessa, negare uno dei suoi cardini fondativi, cioè il valore salvifico del libero mercato, nel quale tutto ha un prezzo, anche i diritti umani, anche il lavoro. E se ai grandi capitali non conviene che tutti abbiano uno stipendio dignitoso, peggio per gli altri.
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