I banchieri centrali sentono profumo di vittoria sull’inflazione, scrive il Financial Times. E il taglio dei tassi d’interesse è ormai maturo. “Ne sapremo di più ad aprile e molto di più a giugno”, ha detto giovedì Christine Lagarde. Sulle due date si dividono i governatori delle banche nazionali. Il francese François Villeroy de Galhau e l’italiano Fabio Panetta preferirebbero aprile; il tedesco Joachim Nagel ora potrebbe accettare una riduzione a giugno. La Presidente della Bce non ha preso formalmente posizione, ma quel “di più” dal sen fuggito durante la conferenza stampa fa capire che anche lei preferisce giugno, se non altro perché i nuovi dati non dovrebbero essere pronti per la riunione dell’11 aprile. Potrebbe essere troppo tardi per avviare una svolta espansiva. In genere si calcola che la trasmissione della politica monetaria all’intera economia impieghi fino a sei mesi, in tal caso lo stimolo alla domanda e alla produzione non arriverebbe prima del prossimo Natale. Ciò avrebbe conseguenze negative sul prodotto lordo dell’Eurozona, ma anche ricadute sociali e politiche.
Due i fattori determinanti nella scelta: il primo è la congiuntura economica le cui variabili sono l’inflazione e la crescita; il secondo è politico e riguarda le elezioni. Ciò vale sia per l’Eurozona, sia per gli Stati Uniti. Nel quarto trimestre dello scorso anno l’area euro ha registrato crescita zero. Aspettiamo i dati del primo trimestre, ma l’inverno non sembra aver portato grandi cambiamenti. Ha continuato invece a scendere l’inflazione, a un ritmo anche superiore al previsto. Nelle ultime proiezioni della Bce l’aumento dei prezzi è stato rivisto al ribasso, in particolare per il 2024, principalmente per effetto del minore contributo dell’energia.
Gli esperti indicano ora che l’inflazione si collocherebbe in media al 2,3% nel 2024, al 2,0% nel 2025 e all’1,9% nel 2026. La Presidente Lagarde ha detto che non c’è bisogno di aspettare il 2026 per veder scendere il costo del denaro (bontà sua). I tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale rimarranno invariati rispettivamente al 4,50%, al 4,75% e al 4,00%. Sono insomma per almeno due punti più elevati dei prezzi. La disinflazione ha avuto come costo l’appiattimento della produzione e dei redditi. È estremamente importante a questo punto calcolare il momento giusto per agire, senza farsi influenzare da considerazioni politiche. È vero che la banca centrale è indipendente, ma non è certo una monade senza porte né finestre.
Le elezioni europee si terranno dal 6 al 9 giugno. La Bce si riunirà, secondo il calendario, giovedì 6 giugno. Difficile che la sua decisione possa influenzare il voto, tuttavia qualche effetto potrebbe avere sugli indecisi. Ancor più efficaci potrebbero essere le conseguenze sulle aspettative e sull’opinione pubblica se già ad aprile ci fosse una svolta nella politica monetaria in grado di ridurre il costo del denaro e spingere i grandi Paesi europei verso la ripresa.
Inflazione ed elezioni sono una coppia sensibile anche negli Stati Uniti. L’economia sta crescendo del 3,1% l’aumento dei prezzi al consumo è passato dal 4,1% lo scorso anno al 3,1% a gennaio, ultimo dato ufficiale. La Federal Reserve prevede un rallentamento parallelo del Pil e dell’inflazione; mentre quest’ultima marcia verso l’obiettivo del 2%, sia pur a un passo meno rapido che in Europa, la banca centrale americana può contare sulla tenuta della congiuntura. I posti di lavoro continuano ad aumentare, a febbraio anche più del previsto, la disoccupazione è al 3,9% appena, dunque il mercato del lavoro è la solida base di una economia ancora in espansione. Una buona notizia e i giornali si chiedono se sarà sufficiente a sostenere la conferma di Biden. La Fed vede anche l’altra faccia della medaglia, perché l’aumento dei salari e dei consumi può ostacolare una più rapida discesa dei prezzi. Con una ricaduta anche in questo caso sulla politica.
Nel giudizio degli elettori peserà più l’occupazione o l’inflazione? Nessuno può prevederlo in anticipo, ma il dilemma non potrà mai essere risolto se la politica monetaria e la politica fiscale continueranno a viaggiare su binari divergenti. È il messaggio che ha lanciato Mario Draghi a Washington il 16 febbraio scorso. Gli zeloti dell’autonomia si sono preoccupati, i seguaci della politica al primo posto si sono fregati le mani. In realtà hanno torto entrambi. L’equilibrio dei poteri è il fondamento della democrazia in Occidente. Ma in un mondo che rischia di disgregarsi, con super potenze autocratiche e minacciose dove il potere cala dall’alto sull’intera società (a cominciare dalle banche centrali concepite come forzieri del sovrano), ci mancherebbe che andassero in frantumi anche i pilastri economici dei Paesi democratici.
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