I prezzi energetici in Europa sono calati, ma l’inflazione di fondo non rallenta e ciò fa pensare che la Bce continuerà ad alzare i tassi di interesse. Come ricorda l’ex viceministro dell’Economia e presidente del Centro Studi EconomiaReale di Roma e dell’ISTAO di Ancona, Mario Baldassarri, però, la crisi energetica che ha innescato la fiammata inflazionistica deriva dal fatto che «l’Europa ha consentito alle imprese energetiche di continuare a indicizzare il prezzo del gas al fantomatico indice Ttf, cosa che ha provocato uno tsunami di aumenti delle bollette di famiglie e imprese, non contrastato dalle Autorità Antitrust. Questa ondata di inflazione è poi ‘entrata’ in tutto il sistema produttivo e si è amplificata».



Di fronte a un’ondata inflazionistica di questo tipo cosa può fare la politica monetaria?

Se l’inflazione è da domanda, come negli Stati Uniti, allora la stretta monetaria riesce a frenare la domanda e di conseguenza l’aumento dei prezzi. Se, invece, l’inflazione è da costi, come in Europa, la politica monetaria può riuscire a frenare l’inflazione solo attraverso un bagno di sangue in termini di recessione e disoccupazione. Va poi detta una cosa importante.



Quale?

Non basta chiedersi quanto la politica monetaria possa essere efficace nel battere l’inflazione, ma occorre sapere quale politica di bilancio si pone al suo fianco. Negli Stati Uniti, quando la Fed ha cominciato ad alzare i tassi, l’Amministrazione Biden ha varato l’Inflation reduction act (Ira), iniettando 750 miliardi di dollari che hanno controbilanciato la frenata economica causata della Fed, attraverso sostegni alle attività produttive nei settori strategici. In Europa non è possibile mettere in campo qualcosa di analogo, perché il bilancio dell’Ue è pari all’1,5% del Pil, percentuale che negli Usa è, invece, pari al 25%. È evidente che l’Europa è del tutto impotente e deve lasciare spazio ai bilanci dei singoli Stati, tant’è che di fronte all’Ira ha deciso di allentare le regole sugli aiuti di Stato, consentendo, a chi può, di aumentare il proprio deficit. Questo, però, vuol dire spaccare il mercato unico, perché gli Stati non hanno la stessa capacità fiscale.



Le istituzioni europee non sono consapevoli di questa situazione? La Bce non conosce le conseguenze della sua azione e Bruxelles non sa che occorrerebbe contrastare l’effetto recessivo della politica monetaria?

Certo che lo sanno, solo che nelle condizioni istituzionali attuali la Bce guarda solo al suo mandato inflazionistico, lasciando che dell’effetto del rialzo dei tassi sull’economia se ne occupino gli Stati. La Commissione, da parte sua, non può fare molto con un bilancio pari all’1,5% del Pil: sa di non avere risorse e strumenti per contrastare gli effetti recessivi e lascia questo compito agli Stati. I quali sono però impotenti, perché occorre un’azione integrata europea a fronte dell’Ira.

Sembrerebbe un circolo vizioso.

Lo è, è un cane che si morde la coda. Si vede la nave che comincia ad affondare e parte il “si salvi chi può”. E chi non può affoga.

Col rischio di portarsi dietro gli altri…

Esattamente. Non si capire che ormai l’Europa è integrata se c’è qualcuno che affonda rischia di far affondare tutta la nave. È da questo principio che bisognerebbe partire per comprendere che occorre un bilancio federale europeo. In queste condizioni, è la mia conclusione, alla politica restrittiva della Bce andrebbe affiancato un nuovo Next Generation Eu da 750 miliardi gestito a livello federale – non dando, quindi, le risorse ai singoli Stati come ora – e concentrato sulle politiche industriali, energetiche, ambientali, tecnologiche dell’Europa.

Insomma, è dall’attuale oggettiva situazione di difficoltà che dovrebbe venire lo scatto politico per compiere questo passo…

Sì, uno scatto politico-istituzionale prima che economico. Queste cose le dico ormai da 20 anni, ma mi è sempre stato fatto notare che è un’utopia. Sarà pure un’utopia, ma è urgente.

Professore, i rialzi dei tassi possono provocare crisi bancarie importanti?

Le banche hanno generalmente in portafoglio quote importanti sia di titoli di stato che di obbligazioni private. Quando arriva una stretta di liquidità, tramite il rialzo dei tassi, se non hanno abbastanza liquidità si trovano costrette a vendere i bond in portafoglio a un prezzo che può essere inferiore a quello nominale e realizzano, quindi, delle perdite che sono da iscrivere a bilancio. E così che rischia di innescarsi un altro circolo vizioso: le perdite di bilancio alimentano la sfiducia dei depositanti, i quali ritirano i loro fondi creando altra necessità di liquidità per le banche che sono quindi costrette a vendere altri titoli realizzando altre perdite. Va detto che almeno qui l’Europa è in una situazione migliore degli Stati Uniti.

Perché?

Perché in Europa ci sono regole sul sistema bancario molto più stringenti. Inoltre, esiste il bail-in che stabilisce il criterio per cui di fronte a una crisi bancaria a pagare sono chiamati per primi gli azionisti, poi gli obbligazionisti, infine i depositanti, che però hanno una garanzia fino a 100.000 euro. Negli Stati Uniti non c’è questo sistema e immediatamente si ha l’intervento della Fed o dello Stato, quindi della collettività generale, come nel caso di SVB.

Le banche italiane sono, quindi, più solide?

Sì, non vedo grandi rischi in questo momento, anche perché il contagio è già stato molto limitato. In più, come sappiamo, le nostre banche sono sì molto esposte sui titoli di stato italiani, ma non sugli altri tipi di titoli che possono nascondere delle insidie. Per loro è, quindi ,importante che il debito pubblico italiano resti sostenibile.

(Lorenzo Torrisi)

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