C’è stata una grande deriva negli ultimi anni nella politica fiscale della Repubblica italiana. In due direzioni. Una positiva, con un processo di semplificazione, per esempio con le dichiarazioni pre-compilate, che ha reso più facile l’adempimento degli obblighi fiscali. Una particolarmente negativa, con il proliferare di esenzioni, bonus, incentivi e deduzioni che hanno trasformato il Fisco in una giungla dove si moltiplicano sperequazioni e ingiustificabili privilegi.



Qualche esempio? Il bonus per l’efficientamento energetico che pone a carico dello Stato, e quindi di tutti noi, interventi che in gran parte riguardano i ricchi proprietari di ville e villette. Oppure gli incentivi per l’acquisto di monopattini e biciclette. O ancora l’ultimo bonus: 200 euro per tutti fino a un certo reddito, indipendentemente dal numero dei figli e delle reali esigenze delle famiglie.



Il Fisco è così diventata un’arma di distrazione di massa, un modo per cercare di accontentare tutti: con il risultato di dare troppo poco a chi ha veramente bisogno e troppo a chi magari ha un reddito basso solo perché riesce a evadere il fisco e a farla franca. L’evasione peraltro sembra che continui a essere uno sport nazionale se si guardano le statistiche delle ultime dichiarazioni dei redditi. In generale, tre italiani su quattro (78%) dichiarano meno di 28mila euro. Uno su tre (32%) resta sotto i 15mila. Sopra i 75mila euro il 2% dei contribuenti. In fondo i contribuenti che si dichiarano ricchi sono molti meno delle auto di lusso in circolazione.



Eppure la politica fiscale potrebbe avere un ruolo importante per cercare di attuare il principio costituzionale che all’art. 3 afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Quello che viene chiamato il “welfare fiscale” non ha raggiunto tuttavia particolari successi. Lo dimostra il libro “La mano invisibile dello stato sociale” curato da Matteo Jessoula ed Emmanuele Pavolini (Ed. Il Mulino, pag. 3890, € 32), un libro in cui si affrontano con chiarezza e precisione gli effetti dei vari interventi in cui si sono intrecciate le scelte fiscali con le strategie di carattere sociale in molti campi, da quello della casa alla previdenza, dall’educazione alla sanità.

Un giudizio negativo sul complesso degli interventi sarebbe ingiusto e immeritato, e se per alcuni provvedimenti, come quelli per incentivare la previdenza complementare, il giudizio può essere sostanzialmente fallimentare, per altri vi sono poche luci e tante ombre soprattutto per la difficoltà di calibrare gli interventi in relazione alle diverse realtà sociali.

È così che gli autori affermano che “a distanza di quasi un trentennio il progetto di sviluppo di un sistema pensionistico multipilastro per tutti i lavoratori può dirsi sostanzialmente fallito” e che “i cambiamenti introdotti negli anni Novanta hanno incrementato le disuguaglianze sociali tra i cittadini”. Anche perché “ha potuto beneficiare delle agevolazioni fiscali chi ne aveva realmente meno bisogno”.

In molti casi la politica fiscale, relativamente facile da attuare, è stata un alibi per non intervenire con misure più complesse e di difficile gestione. Ma il risultato è che, tra gli altri limiti, è mancata una vera politica per le famiglie e per contrastare quel declino demografico che costituisce uno dei più gravi fattori di crisi per i prossimi anni.

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