Riuscirà Beppe Sala a federare nuovamente il centrosinistra italiano come trent’anni fa Romano Prodi? Sarà il sindaco di Milano a sfidare Giorgia Meloni, nel 2027 o anche prima? Con quale percorso, con quali forze?
Gli interrogativi non nascono improvvisi, anche se sono divenuti di maggior momento dopo la sconfitta elettorale del centrosinistra in Liguria: di misura stretta, per di più con un’avanzata visibile del Pd, soprattutto nella metropoli genovese. L’idea che l’opposizione parlamentare possa tornare competitiva verso la maggioranza di centrodestra (da due anni vincitrice netta di pressoché tutte le consultazioni, nazionali e locali) attraverso un riassetto dello schieramento è divenuta meno remota dopo una sorta di summit tra Sala e la segretaria dem Elly Schlein. Ma il Sussidiario aveva già colto un segnale non banale pochi giorni prima, allorché il sindaco ambrosiano aveva espresso un endorsement di principio alla pre-candidatura per Palazzo Marino da parte di Mario Calabresi, ex direttore di Repubblica e Stampa. Una mossa sulla carta in anticipo larghissimo, essendo le prossime comunali milanesi in calendario naturale nell’ottobre 2026.
L’apertura o meno di un cantiere neo-federativo, sulla scia lunghissima dell’Ulivo del 1996, potrebbe risultare indipendente dall’esito delle regionali in Umbria ed Emilia-Romagna, in calendario nel mese di novembre. Ma una nuova sconfitta del centrosinistra nel bastione regionale di Schlein e Prodi, per quanto poco pronosticabile, potrebbe addirittura accelerare una “operazione Sala”. Ciò che sembra in ogni caso praticabile oggi – in attesa degli sviluppi – è fissare qualche appunto traguardando l’ipotesi Sala sul progetto Ulivo: l’unico veramente vittorioso contro il centrodestra nel trentennio della Seconda Repubblica, anche se soltanto nel lontano 1996.
Prodi e Sala: due tecnocrati diversamente prestati alla politica. Prodi aveva 56 anni quando cominciò a girare in pullman la penisola candidandosi direttamente a premier. L’economista emiliano, “cattodem” storico, era stato ministro dell’Industria a 39 anni e poi presidente dell’Iri (allora la maggior holding finanziaria e industriale italiana); ma non aveva mai affrontato prima una prova elettorale. Sala, oggi 66enne, è un manager formatosi nell’industria privata, poi direttore generale del Comune di Milano con il sindaco di centrodestra Letizia Moratti prima del salto a chief dell’Expo Milano 2015. Una vetrina globale prodromica alla candidatura a sindaco nel 2016: due volte vincente, Sala, sempre come indipendente di centrosinistra (nel 2021 alla guida di una lista personale di ispirazione euro-verde).
Prodi era stato allevato dalla “sinistra Dc”: sopravvissuta a Mani Pulite prima nel Ppi poi nella Margherita, contenitori partitici ancora strutturati e presenti in tutte le dimensioni politico-istituzionali, sociali ed economico-finanziarie del Paese (al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro fu regista ultimo della crisi del Berlusconi 1 e della fase di transizione dell’esecutivo di Lamberto Dini, confluito poi nell’Ulivo). Il “campo largo” di quel centrosinistra aveva comunque il suo pilastro nei Ds, il vecchio partito comunista doc emerso quasi incolume da Tangentopoli e guidato da leader di nuova generazione come Massimo D’Alema e Walter Veltroni.
E se nel 2024 il format federativo viene rispolverato a certificare il fallimento definitivo della fusione fredda di Margherita e Ds nel Pd, a metà anni 90 l’Ulivo riusciva a federare nella sinistra estrema una forza come Rifondazione Comunista: il cui antagonismo era peraltro del tutto diverso da quello espresso da M5s nell’ultimo decennio. Negli anni d’oro dell’Ulivo, il problema del “centro” politico – così appassionante per i commentatori odierni – non esisteva: il centro erano Prodi e Scalfaro, il mercato elettorale e il potere ruotavano direttamente attorno a loro.
Prodi ebbe nelle sue vele il vento forte di un’Europa in fase ascendente: il Trattato di Maastricht era stato siglato nel 1991 e aveva come traguardo dichiarato l’euro entro la fine del decennio. L’intesa portante per l’adesione immediata dell’Italia all’eurozona era stata siglata con la Ue da Beniamino Andreatta, “dioscuro” di Prodi e ministro nel governo tecnico di Carlo Azeglio Ciampi. L’accordo Andreatta-Van Miert del 1993 impegnava l’Italia a un grande piano di privatizzazioni e liberalizzazioni: che furono poi diligentemente realizzate in gran parte dal Prodi 1, con Ciampi ministro del Tesoro e Mario Draghi suo direttore generale (e dalle grandi banche a Telecom e Autostrade ogni Opv andò a segnare capisaldi di “nuovo capitalismo” innervato nel centrosinistra). L’agenda italiana era dettata da Parigi (sotto l’onda lunga del socialista François Mitterrand) e da Berlino (dal cristiano-democratico Helmut Kohl).
Accadde ancora nel 2011 mentre oggi – certamente – “Europa e mercati” non sono più i grandi protettori del centrosinistra italiano e sembra lontana l’era in cui l’ex leader-federatore Prodi veniva chiamato alla presidenza della Commissione Ue. Se la piattaforma istituzionale di Bruxelles è oggi un potere assai meno forte, a Strasburgo socialdemocratici e verdi sono forze ormai quasi minoritarie e vacillano anche in Germania e Spagna, i soli grandi Paesi Ue non governati dal centrodestra. I popolari, invece, hanno di fatto stabilito un asse con la maggioranza italiana di centrodestra, una linea di comunicazione politica che funziona in particolare fra le due premier Ursula von der Leyen e Meloni. L’interfaccia “geopolitica” con gli Usa meriterebbe una lunga parentesi a sé, ma l’Italia di Meloni è oggi certamente considerata a Washington un alleato affidabile su Ue, Ucraina, Medio Oriente e Cina, al contrario della galassia del centrosinistra nazionale. E non è affatto detto che una vittoria di Kamala Harris (vice di Joe Biden) porti a un cambio di cavallo a Roma.
In uno scenario che – a tavolino – non appare ricco di elementi incoraggianti per una “operazione Sala”, spicca invece una grossa incognita: quella costituita dagli Eredi Berlusconi. Sono i figli del leader indiscusso e ininterrotto del centrodestra italiano dal 1994 al 2023: l’avversario giurato del centrosinistra. Contro di lui Prodi ha vinto per due volte (la seconda a fatica, resistendo poi per soli due anni). Il centrosinistra senza Prodi invece ha sempre perso: anche quando lo stesso Cavaliere consentì poi al Pd di governare prestando una pattuglia di senatori. Con Berlusconi vivo – candidato ed eletto senatore – il centrodestra ha vinto nettamente le ultime elezioni dopo un decennio di “democrazia a bassa intensità”.
Meloni è nata nel Berlusconi 3 e governa da due anni il Paese con il supporto determinante di Forza Italia. Senza l’“eredità Berlusconi” – e Marina e Piersilvio vi ricomprendono anche le delegazioni parlamentari di Forza Italia a Roma e Strasburgo – non c’è dubbio che la maggioranza di centrodestra non sarebbe più tale. Aritmeticamente, un ribaltone di Forza Italia potrebbe portare in maggioranza il centrosinistra, che ritroverebbe così il “centro” mancante. È a questo orizzonte – una prospettiva anticipata per primo da questo giornale – che punta l’“operazione Sala”?
Il background di Sala – nella tecnocrazia manageriale meneghina, nel berlusconismo della borghesia metropolitana incarnato da Letizia Moratti – sembra più di un indizio del tentativo di promuovere un “pendolo” del partito personale degli Eredi Berlusconi: che da quando il Cavaliere è scomparso sono in allerta permanente sul futuro di Mediaset. La stessa preparazione della manovra 2025 ha visto riemergere per un attimo ipotesi di abbassamento del canone Rai: nel codice politico di Fratelli d’Italia e Lega, un indice di attenzione permanente per l’esigenza di riforma del duopolio Rai-Mediaset, anche sulla scorta delle indicazioni comunitarie sulla regolamentazione. E in questo quadro sono partiti – dalle sedi ambrosiane di Fininvest e Mediaset – segnali numerosi e non marginali: dall’assunzione di Bianca Berlinguer – figlia del più importante leader Pci del dopoguerra – alle dichiarazioni di Marina Berlusconi di simpatia per alcune posizioni valoriali della sinistra, fino al gossip, lasciato correre in libertà, sulla possibile discesa in campo di Piersilvio. E questo mentre l’attivismo semipresidenzialista e partisan di Sergio Mattarella al Quirinale sta toccando nuovi massimi storici, dopo il ribaltone di cinque anni fa.
In un war game politico-elettorale che gli Eredi Berlusconi volessero giocare assieme ai “dem”, appare delinearsi una scommessa multipla: mantenere compatta la forza elettorale del Pd attuale; riassorbire a sinistra un elettorato M5s già frantumato al pari del partito-movimento; agganciare al centro una “nuova Forza Italia” presumibilmente irrobustita da personale e voti provenienti da Azione, Italia viva, +Europa. L’unico dato certo è che gli Eredi Berlusconi accetterebbero di impegnarsi in un’operazione-terremoto solo se e quando vedessero un rischio reale per Mfe, la loro piattaforma televisiva in via di espansione europea; e se il “nuovo centrosinistra” (con Sala leader o meno) offrisse loro garanzie ferree di “status quo” della regulation. Quelle garanzie che – sulla base della reciproca convenienza al duopolio Rai-Mediaset – il centrosinistra gli ha alla fine sempre offerto (prima con Prodi e D’Alema, poi con Giorgio Napolitano nel passaggio cruciale del 2011, infine con Matteo Renzi, con cui il Cavaliere concluse il “patto del Nazareno”). Non senza una progressiva “desistenza” da parte della magistratura più militante contro il Cavaliere.
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