Nel giorno in cui l’Istat certificava che si è perso un milione di posti di lavoro dall’inizio della pandemia, l’attenzione è stata attirata dalle manifestazioni di lavoratori autonomi, commercianti e piccoli imprenditori. Infiltrazioni di estrema destra hanno creato tensioni e tafferugli. Chi protestava aveva però molte ragioni.



I rimborsi, promessi per le perdite economiche dei lavoratori autonomi, sono stati gestiti spesso come la campagna vaccinale lombarda. Grandi proclami e promesse e poi una burocrazia ottusa che ha sommato errori a ritardi. Molte categorie professionali non hanno praticamente mai lavorato. I costi di gestione di uffici, negozi e laboratori sono proseguite e i ristori, quando arrivati, hanno coperto forse il 10% del reddito volatilizzato. Per molti si aggiunge l’incertezza della ripresa anche dopo l’estate, perché la ripresa della mobilità delle persone ci sarà, ma sarà molto lenta.



I numeri del mercato del lavoro certificano già un forte malessere dei lavoratori autonomi. Oltre il 30% dei posti di lavoro persi sono di professioni non dipendenti. Il saldo fra aperture e chiusure di imprese è stato spesso negativo negli ultimi 12 mesi, a segnalare che anche in questo settore molti sono gli scoraggiati che si ritirano dal mercato del lavoro in attesa di tempi migliori.

L’Istat ha indagato questo mondo delle imprese con il Rapporto sulla competitività 2021. Il 2020 ha registrato il crollo del valore aggiunto. Meno 11,1% nell’industria in senso stretto, calo dell’8,1% nei servizi e del 6% per costruzioni e agricoltura. All’interno dei macrosettori abbiamo però situazioni diversissime. I servizi di commercio, trasporti, alberghi e ristorazione hanno un calo del 16%, pari quasi al calo del settore manifatturiero di macchinari e mezzi di trasporto. Il ribasso maggiore lo registrano i produttori di abbigliamento e calzature con un -23%. In crescita solo alimentari (+2%) e farmaceutico (+3,5%).



Anche fra le imprese i più colpiti sono nelle fasce che già risultavano deboli. Se la media ci dice che circa il 45% delle imprese è strutturalmente debole, e rischia di non riuscire a reagire agli effetti della crisi di mercato così prolungata, la loro distribuzione porta a incrementare il divario storico italiano. La concentrazione di imprese fragili è forte nel Mezzogiorno e riguarda soprattutto quelle a basso contenuto di tecnologia e conoscenza. Si tratta di micro e piccole imprese che assicurano però reddito a un numero significativo di nuclei famigliari. Sono piccoli imprenditori che rischiano di scivolare sotto il livello di povertà. 

La parte più solida delle imprese rappresenta l’11% del totale, ma assicura circa la metà dell’occupazione e i tre quarti del valore aggiunto complessivo. Nel mezzo vi è quel grande numero di imprese di tutti i settori che stanno resistendo con i denti, che stanno immaginando come cambiare per sfruttare al massimo ogni piccola riapertura, ma soprattutto che vogliono partecipare al meglio alla ripresa che potrà partire quando, assicurata la fase vaccinale e la tutela della salute, inizieranno gli investimenti previsti dal piano di rinascita europeo.

Nella pancia di questo sistema di imprese, con tutte le fragilità che abbiamo visto, vi sono ancora oggi molte migliaia di cassintegrati. Il blocco dei licenziamenti abbinato all’estensione del ricorso alla cassa integrazione fa sì che oggi anche la stessa Istat calcoli come disoccupati quei lavoratori che sono fuori dalla produzione da oltre tre mesi. Il blocco dei licenziamenti sta diventando un blocco della mobilità del lavoro con lo stop anche alle possibili assunzioni.

Già nel primo periodo la scelta fatta aveva dimostrato che occorrono strumenti diversi per avere ammortizzatori sociali che assicurino la copertura a tutti i lavoratori. L’uso prolungato di una strumentazione inadeguata rischia, come spesso succede in questi casi, di diventare addirittura un danno per le fasce più deboli.

La richiesta della Cgil di prorogare già da ora tali misure fino alla fine di ottobre per tutti peggiorerebbe ancora di più la situazione con l’ingessatura completa del mercato del lavoro e l’assenza di interventi a sostegno di chi, nonostante blocchi e proclami, si trova espulso dal suo lavoro, dipendente o autonomo che sia, e senza sostegno alcuno.

Se l’impegno dichiarato di questo Governo è rimettere in moto il Paese non può essere il proseguimento dei blocchi la scelta. Assieme alla copertura coi vaccini della maggioranza della popolazione entro l’estate, e l’avvio del piano di utilizzo dei fondi europei, va intrapresa una svolta anche sul lavoro.

Sappiamo già che la sfida della ripresa passerà per la crescita delle competenze e delle professionalità impegnate in tutti i settori. Digitalizzazione e sostenibilità richiedono cambiamenti significativi nella produzione, nella progettazione dei beni, come nell’organizzazione dei cicli produttivi e della vita delle nostre comunità. Serviranno perciò figure professionali diverse, dovremo riadeguare le nostre capacità e apprendere nuove tecnicalità. Non possiamo aspettare la grande riforma degli ammortizzatori con il blocco di tutto fino all’autunno. Ci vuole il coraggio di definire ora un piano di politiche attive che sostenga la ripartenza autunnale della produzione. Vanno coinvolti i lavoratori in cassa integrazione ma anche molti che, scoraggiati, sono oggi fuori dalla ricerca attiva di un lavoro.

Meglio investire in sapere, in questi mesi, tutte le risorse che servono per assicurare un giusto sostegno al reddito dei lavoratori coinvolti nella formazione piuttosto che proseguire con un sistema che tutela pochi e lascia senza speranza per il futuro tutti. E assieme all’investimento in formazione per i lavoratori si deve portare credito e sostegno al sistema di micro e piccole imprese perché possano far aumentare gli investimenti in tecnologia e conoscenza, per superare il principale ostacolo che ne blocca la possibile crescita futura.

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