L’indice che misura l’andamento dei salari in Europa è salito nel primo trimestre del 4,7%, su base annua, in aumento rispetto al 4,5% del trimestre precedente. Il dato, comunicato ieri mattina dalla Bce, non supporta uno scenario di rallentamento dell’inflazione e pone interrogativi sul numero e la velocità del taglio dei tassi della Banca centrale europea. Ieri pomeriggio gli indici sulla fiducia delle imprese americane hanno sorpreso al rialzo e fatto salire i rendimenti delle obbligazioni statali europee e americane. Un orizzonte temporale mensile o settimanale non aiuta a definire il problema che si pone a prescindere da quello che accadrà all’economia nei prossimi mesi, su cui oggi è difficile avere certezze.
Si assume che il rallentamento economico e le attuali condizioni monetarie portino gradualmente a una riduzione dell’inflazione e che le banche centrali non avranno remore ad abbassare i tassi. Questo è quello che è successo negli ultimi tre decenni. Oggi le banche centrali, americana e europea anche se in modo diverso, vedono un rallentamento dell’inflazione e un rallentamento economico e in questo scenario le sfide sono quelle di sempre. La novità potrebbe essere rappresentata da un’inflazione sorprendentemente stabile o in rialzo anche in presenza di un rallentamento economico o di un indebolimento del mercato del lavoro. Questo è ancora più vero nel caso americano perché il rischio che l’inflazione riparta è concreto. La questione per gli investitori si riduce alla convinzione o meno con cui le banche centrali decideranno di combattere i prezzi in presenza di un rallentamento del mercato del lavoro.
Il corollario è che le condizioni finanziarie attuali non sono restrittive perché se l’inflazione riparte diventerebbe immediatamente chiaro che la Fed, soprattutto, ha smesso di tagliare troppo presto. L’andamento dei mercati potrebbe essere la conferma di questo scenario; il rialzo dei listini non è neutrale né per i prezzi, né per i consumi non fosse altro che per l’effetto ricchezza che genera. Il mistero di questo ciclo di crescita sopravvissuto oltre qualsiasi previsione affonda in condizioni finanziarie rimaste espansive e in una politica fiscale americana generosa anche con il Pil in pieno recupero. Quello che accade negli Stati Uniti impatta anche l’Europa. Jamie Dimon, ad della maggiore banca del mondo, Jp Morgan, tre giorni fa avvertiva che l’inflazione “potrebbe non andare dove la gente si attende” ed elencava le forze inflattive che stanno davanti a noi “la green economy, la rimilitarizzazione globale, la necessità di investire in infrastrutture, la ristrutturazione dei commerci, il deficit fiscale”; la sorpresa, in questo caso, sarebbe che i “tassi e l’inflazione sono più alti”.
Il punto di caduta, se questo è lo scenario, sta nelle obbligazioni statali che oggi scontano un ritorno alla normalità su cui è lecito dubitare. Se l’inflazione fatica a scendere, in Europa, anche con un rallentamento economico e se, negli Stati Uniti, riparte, è inevitabile chiedersi quale sia il livello di rendimento di cui ci si debba accontentare su un’obbligazione a dieci anni.
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