Ora che l’inflazione americana a luglio è scesa al 2,9%, il tasso più basso dal 2021, molti danno per scontato che la Federal Reserve nella riunione del prossimo mese ridurrà finalmente i tassi d’interesse. Di conseguenza si ritiene molto probabile che la Banca centrale europea farà lo stesso anche perché nell’Eurozona l’incremento dei prezzi è stato ancora inferiore rispetto al dato americano: 2,6%, circa la metà rispetto all’anno precedente quando il costo della vita saliva del 5,3%. Un taglio è auspicabile, anzi è necessario in Europa ancor più che negli Stati Uniti. Ma sarà così? Gli analisti sono divisi e sembra prevalere la cautela se non lo scetticismo. Vediamo perché.



Il prodotto lordo nell’Eurolandia è cresciuto solo dello 0,3% nel secondo trimestre di quest’anno. Negli Usa siamo invece al 2,9%. È ancora una stima perché i dati definitivi si avranno soltanto il 29 prossimo, ma in ogni caso il gap è enorme. I tassi di riferimento della Fed sono tra il 5,25% e il 5,50%, nella zona euro dopo il taglietto di giugno (un quarto di punto) si collocano al 4,25%. In entrambi i casi sono più alti rispetto all’inflazione, quelli americani di due punti e mezzo, quelli europei di un punto e mezzo circa. Il calcolo aritmetico ci dice che la politica monetaria della Fed è più stretta di quella della Bce, ma l’economia sull’altra sponda dell’Atlantico corre, qui ristagna.



Se pensiamo che il costo del denaro non serve solo a regolare i prezzi, ma influenza anche i consumi e la produzione, allora dobbiamo concludere che non è Washington a dover fare la prima mossa, ma Francoforte. L’idea di attendere la Fed, che si è diffusa tra molti banchieri centrali europei, rischia di mettere ancor più fuori fase l’economia. Non solo. Gli scettici invitano a considerare la reazione di Joe Biden al buon dato sull’inflazione. “Continuiamo a fare progressi – ha detto -, ma i prezzi sono ancora troppo alti. Abbiamo ancora molto lavoro da fare per ridurre i costi per gli americani che lavorano duramente”. Il Presidente se l’è presa con le grandi aziende che “stanno sedute su profitti record”. Siamo in campagna elettorale, ma la sua non è solo retorica. Sa bene che l’inflazione preoccupa la classe media e la massa degli elettori; Donald Trump batte la grancassa proprio su questo, quindi Biden non vuol lasciare scoperto questo terreno di propaganda.



Ma il Presidente ha aggiunto un altro dato di fatto: “I salari aumentano più velocemente dei prezzi da 17 mesi consecutivi”, ha ricordato. Ed è proprio questo che preoccupa Jerome Powell, il gran capo della Fed, il quale vuole avere più dati ancora prima di agire. Parla di “modesti progressi” dell’inflazione che resta ancora più alta rispetto al target del 2%. Non ha lanciato nessun messaggio chiaro, anche lui ha ripetuto come ha più volte detto Christine Lagarde che le decisioni saranno prese “incontro dopo incontro”. Sarà interessante a questo punto capire cosa verrà detto nell’annuale incontro a Jackson Hole nel Wyoming: il simposio dei banchieri si terrà da giovedì a sabato prossimi e come al solito diventa l’occasione per fare il punto sullo stato dell’economia americana.

Dal fronte liberal è arrivato il monito di Paul Krugman nel suo commento sul New York Times: attenti a non tirare per la giacca la banca centrale, la sua indipendenza è fondamentale. E ha ricordato quel che fece Richard Nixon in vista delle elezioni del 1972: dopo aver svalutato il dollaro nel ferale Ferragosto del 1971, mise pressione su Arthur Burns allora Presidente della Fed perché stampasse moneta. Un’ondata d’inflazione mai vista prima s’abbatté sui mercati mondiali, il dollaro senza più l’ancoraggio all’oro cominciò a sbarellare annunciando l’era della instabilità ancor prima che con la guerra dello Yom Kippur nel 1973 l’Arabia Saudita decidesse l’embargo petrolifero e facesse schizzare in alto i prezzi del greggio.

Oggi non siamo affatto in una situazione del genere. La discesa delle borse nei primi giorni del mese si è rivelata una tempesta in un bicchier d’acqua, ma è stato un altro segnale che i mercati si muovono su un filo sottile con i nervi a fior di pelle. Basta poco per far esplodere una bolla che si è gonfiata forse oltre misura. E non è il caso di ricordare che tra i Paesi che potrebbero subire le conseguenze peggiori c’è l’Italia con un debito che continua crescere e sembra ormai destinato a superare la soglia dei tremila miliardi di euro. L’economia italiana ha un gran bisogno che il costo del denaro si riduca, proprio per questo guai a sbagliare una mossa. Un monito per la Bce, ma anche per il Governo che si prepara alla Legge di bilancio. L’aumento delle entrate ha fatto stappare prosecco a chi pensa che si possa spendere e spandere. I dati sull’indebitamento mostrano che lo Stato sta già spendendo e forse troppo. Può darsi che la fine del grande caldo d’agosto raffreddi anche i bollenti spiriti degli spreconi.

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