Siamo al punto di svolta? Oppure l’entusiasmo è prematuro? Domanda legittima di fronte alla svolta dei mercati finanziari al termine di una delle settimane più complesse e delicate per i listini di azioni e bond. Superate le elezioni americane di midterm, i mercati hanno celebrato con entusiasmo la notizia che, a sorpresa, i prezzi al consumo Usa stanno crescendo assai meno del previsto.



Ancor prima le Borse europee, Milano in testa, avevano avviato un recupero in grande stile: da dieci sedute Piazza Affari chiude con il segno più. E il rendimento dei i Btp è scivolato per la prima volta sotto il 4% nonostante il ciclo dei rialzi della Bce sia tutt’altro che finito. Insomma, dai mercati arriva una nota di ottimismo che contrasta con le previsioni sull’andamento delle economie, viste in frenata nei prossimi mesi, senza escludere una possibile recessione. Come conciliare le opposte vedute?



Per prima cosa occorre distinguere tra le due sponde dell’Atlantico. La prima vittoria della Fed sull’inflazione dopo la raffica di aumenti dei tassi ha tutta l’aria di essere vera. Certo, sarà il caso di attendere conferme perché già altre volte negli ultimi mesi le speranze sono andate in fumo alla prima verifica. Ma stavolta sembra davvero diverso: l’indice dei prezzi, su base annualizzata, si sta rapidamente spostando verso il basso lasciando prevedere che tra un anno l’inflazione oscillerà attorno al 4%. Vari fattori che hanno alimentato la corsa dei prezzi stanno rientrando nella normalità: cala il livello dei noli marittimi e si normalizza l’offerta dei chips, con il risultato che scende la febbre per le auto usate, uno dei settori che ha più alimentato l’aumento del paniere dell’inflazione americana. Non a caso il giovedì d’oro delle Borse americane, con il rialzo maggiore degli ultimi due anni e mezzo, ha coinciso con il tracollo di Carvana, uno dei leader del mercato dell’usato a quattro ruote, che oggi vale il 95% in meno di un anno fa.



La terapia, dunque funziona. Il rialzo dei tassi sta provocando le prime vittime nella new economy, obbligando i colossi del web a ridurre l’occupazione, così come vuole la banca centrale, ben decisa a reprimere i focolai di esuberanza irrazionale scatenati dall’eccesso di liquidità nel sistema. Anche la crisi del Bitcoin è un effetto collaterale gradito: Sam Bankman, il proprietario della piattaforma Ftx sull’orlo del default, è uno dei principali azionisti di Robinhood, il sito dei piccoli speculatori in azione sul mercato Usa. A tranquillizzare la banca centrale, poi, dovrebbe essere l’esito delle elezioni: il muro contro muroall’interno del Congresso frenerà i disegni di legge più impegnativi sul piano della spesa, ma eviterà anche nuovi, pericolosi tagli di tasse come invocato dai repubblicani.

Tutt’altro quadro per la vecchia Europa. Anche qui il problema principale consiste nella lotta all’inflazione. Ma in Europa, più che negli Stati Uniti, la medicina del rialzo dei tassi rischia di essere indigesta per il rischio che alcuni vagoni del convoglio Ue, primo fra tutti l’Italia, non riescano a tenere il passo. A rendere le cose più difficili è senz’altro il nodo dell’energia. Si parla molto del gas, ma si profila un’emergenza non meno grave per il petrolio. Per due ragioni.

La prima è la fine delle vendite dalle riserve strategiche americane, che finora hanno molto contribuito a calmierare i prezzi. La seconda è l’entrata in vigore, in dicembre, delle nuove sanzioni europee contro la Russia. Queste prevedono un tetto al prezzo del greggio russo importato che non è stato ancora fissato, ma che sarà certamente più basso del prezzo attuale. Sulla carta questo dovrebbe fare scendere il prezzo, ma nei fatti rischia di farlo salire se la Russia, come ha già detto, risponderà producendo di meno. A complicare la lotta, poi, contribuisce il fatto che le politiche fiscali tenderanno ancora a essere espansive (aumento delle spese militari, sussidi sull’energia in Europa) e la politica monetaria dovrà almeno in parte agire da contrappeso se non si vorrà vedere l’inflazione ripartire. Di qui l’obbligo per la Banca centrale europea di raffreddare la crescita, stringendo le maglie del credito.

Di qui la sensazione che l’America abbia le carte in regola per avviare tra qualche mese un nuovo ciclo espansivo di lunga durata. In Europa, soprattutto se non si saprà sviluppare una politica del credito comune, radunando le risorse disponibili, le cose saranno davvero più complicate. E di sicuro non aiutano le fratture sui migranti, la foglia di fico che permette di distogliere l’attenzione da conflitti di interesse ben più profondi.

In questa cornice, il vento Usa è senz’altro più forte della bonaccia che domina i cieli europei. Una prosecuzione del recupero dei mercati di qui a fine anno è perciò probabile. Certo, il mondo è ancora pieno di problemi, ma qualche volta vale la pena guardare al bicchiere mezzo pieno. In attesa che da Est, finalmente, soffino venti di tregua, se non di pace.

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