Sono tinti di carbone gli auguri che l’Unione della comunità ebraiche italiane (Ucei) ha inviato a Papa Francesco, ieri sulla prima del Foglio, per bocca della presidente Noemi Di Segni. Pur senza nominarlo, Di Segni aveva già messo nel mirino il Pontefice nel suo messaggio per la festività ebraica di Chanukkà (pubblicato nel giorno del Natale cristiano, con un esplicito riferimento all’apertura del Giubileo cattolico). Il nervo scoperto per gli ebrei della diaspora italiana – di nuovo ieri in modo esplicito sul quotidiano fondato da Giuliano Ferrara – resta l’evocazione aperta del “genocidio” per la guerra di Gaza da parte del Papa: unico leader globale ad andare oltre l’accusa di “crimini di guerra” formulata dalla Corte penale internazionale contro il governo di Gerusalemme, per l’uccisione di 45mila palestinesi e la distruzione della “patria” per un popolo di 2 milioni.
Che durante la risposta israeliana all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 (con 1.200 vittime israeliane e oltre 200 presi in ostaggio) siano stati commessi crimini gravi è un’ipotesi giudicata ormai ammissibile anche a giudizio di Liliana Segre, senatrice a vita in Italia e figura di spicco globale nell’impegno contro l’antisemitismo. Ma anche per Segre l’uso della parola “genocidio” è interdetta, “blasfema”. L’unico genocidio meritevole di tale nome – e di Memoria nel 21esimo secolo – è la Shoah ebraica per mano nazista. Quella che gli ebrei di tutto il mondo si accingono a ricordare il prossimo 27 gennaio: attendendosi chiaramente l’omaggio “assoluto” ormai invalso senza confini, senza ombre minime portate dalla guerra ancora in corso in Medio Oriente. Senza che risuonino le crescenti contestazioni che – anche in Italia – hanno accompagnato l’azione dello Stato ebraico a Gaza, nei Territori cisgiordani, nel Libano meridionale.
Che tuttavia qualcosa – anzi, molto – sia cambiato dal Capodanno 2024, lo ha confermato anche Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno agli italiani. La prima riga di merito – dopo i saluti introduttivi – è stata questa: “Nella notte di Natale si è diffusa la notizia che a Gaza una bambina di pochi giorni è morta assiderata”. La seconda: “Nella stessa notte di Natale feroci bombardamenti russi hanno colpito le centrali di energia delle città dell’Ucraina per costringere quella popolazione civile al buio e al gelo”. La terza citazione fra le “barbarie” correnti è stata per “gli innocenti rapiti da Hamas, e tuttora ostaggi, vivono un secondo inizio di anno in condizioni disumane”. Poco equivocabile – fra i destinatari dell’appello doloroso del Presidente della Repubblica italiana – il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ancora in questi giorni rifiuta ogni negoziato per il ritorno degli ostaggi. Se a questo si aggiunge il caldo messaggio inviato da Mattarella al Papa per la Giornata Mondiale della pace è evidente la conferma della fortissima sintonia fra il Quirinale e la Santa Sede sulla crisi geopolitica.
È quindi comprensibile la preoccupazione degli ebrei italiani per la vicina Giornata della Memoria, che può rivelarsi problematica nello svolgimento e divisiva nell’esito politico-mediatico, a tutto danno della causa del contrasto all’antisemitismo nel lungo periodo. Ma l’associazione stretta fra la Memoria della Shoah e la libertà “eccezionale” di Israele di “difendere la propria sicurezza” – sempre, con ogni mezzo, insindacabilmente – è esattamente una delle armi-scudo cui il governo di Gerusalemme è ricorso dal 7 ottobre in poi. E come Netanyahu e i suoi ministri più estremisti sono parsi lasciare al loro destino i cittadini israeliani nelle mani di Hamas, così è sembrata marginale ogni attenzione non solo strumentale per la Memoria accumulata nei decenni dalle comunità della diaspora, anche in chiave di deterrenza attiva dei periodici rigurgiti antisemiti. Semmai Netanyahu ha portato all’estremo la fusione fra Memoria e azione politica dello Stato ebraico con l’intromissione diretta nella campagna presidenziale Usa, sfociata nella sconfitta dei “dem” a vantaggio di Donald Trump. Forse anche per questo, dopo quasi 450 giorni, anche la segretaria del Pd Elly Schlein (figlia di un politologo israelita americano) ha superato ogni esitazione, parlando di “crimini” a Gaza, invocando l’immediato cessate il fuoco e rilanciando la soluzione “due Stati”.
L’attacco al Papa da parte della Di Segni segue di pochi giorni la pubblicazione sul Foglio di un analogo intervento critico firmato dal ministro israeliano della diaspora, Amichai Chikli. E nello sbarrare al Pontefice “le porte delle sinagoghe”, la presidente Ucei è risultata tutt’altro che metaforica: Papa Francesco ha visitato la sinagoga di Roma come i suoi due predecessori San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ma ora a lui viene simbolicamente ritirato il “visto” dell’ebraismo internazionale. Può darsi che contro il Pontefice giochi lo sforzo pastorale di dialogo interreligioso con l’islam. Di certo si sta ritrovando oggi poco lontano dal predecessore Pio XII, su cui pesa una fatwa apparentemente imperdonabile.
Nel colloquio con il Foglio, Di Segni non ha mancato di citare il caso di Cecilia Sala, arrestata a Teheran. Parole apparentemente di rito, nella realtà non prive di tratti discutibili. “Vicinanza e solidarietà” alla giornalista italiana sono state espresse da una voce e su una tribuna schierate con il governo Netanyahu, che sta alimentando da mesi contro l’Iran l’escalation “mondiale” della guerra di Gaza. Tanto che Sala – volando a Teheran – non ha corso soltanto i rischi legati al suo operare come collaboratrice (anche) del Foglio impegnata nella raccolta di voci della dissidenza giovanile allo Stato iraniano. I media internazionali non cessano infatti di accreditare la possibilità di un nuovo strike militare dello Stato ebraico contro l’Iran, nei giorni finali della complicata transizione fra Joe Biden e Donald Trump alla Casa Bianca. Mentre l’Italia intera (a cominciare da Mattarella) è impegnata al massimo per la liberazione della Sala dal carcere di Evin, Israele potrebbe gettare sul fuoco anti-occidentale di Teheran la dinamite di altri missili.
“Avere a che fare con regimi come l’Iran è difficile anche solo nell’attivazione dei canali diplomatici”, sostiene Di Segni. Vale certamente per Gerusalemme, che sui suoi canali con l’Iran fa volare pezzi di “terza guerra mondiale”. Ma per quanto riguarda i canali fra Italia e Iran, in questi giorni febbrili è tassativo rimuovere da essi ogni possibile inciampo. E chiunque sembri porre ostacoli – magari in modo non intenzionale – finisce per attirarsi i sospetti di perseguire obiettivi diversi dal ritorno dell’ostaggio Sala. Una giornalista italiana, punto.
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