Le minacce di Carlos Tavares, che senza incentivi statali vede a rischio gli stabilimenti italiani a cominciare da Mirafiori e Pomigliano d’Arco, e l’estrema incertezza che regna sulla sorte dell’Ilva (alias Acciaierie d’Italia) di Taranto, ripropongono in modo drammatico una questione mai risolta sul futuro dell’Italia industriale. Stellantis è il più grande gruppo manifatturiero privato con 42mila dipendenti e un fatturato che si aggira sui 180 miliardi di euro. L’Ilva di Taranto con circa 9mila lavoratori contribuisce al Prodotto lordo italiano per 19 miliardi di euro, ma potrebbero essere di più perché oggi lavora a un terzo delle sue capacità. Auto e acciaio, due pilastri di una industrializzazione tradizionale, ma che non ha affatto perso la sua importanza non solo in Italia, ma negli Stati Uniti, in Giappone, in Germania, per non parlare della Cina. Le tecnologie digitali si sono aggiunte, non hanno soppiantato né distrutto l’impalcatura novecentesca, le rivoluzioni tecnologiche sono incrementali non si cannibalizzano a vicenda.
Per l’Ilva è in arrivo ancora una volta un commissario, nella più completa incertezza sull’assetto proprietario, quindi sul capitale, sugli investimenti, sulle strategie. Per Stellantis la situazione è diversa, ma persino più intricata.
Nell’intervista rilasciata venerdì scorso a Bloomberg, l’amministratore delegato è stato molto chiaro: sono in arrivo in Europa le auto elettriche cinesi che oggi hanno un’ottima qualità e un prezzo molto più basso di quelle europee. La differenza in termini di costi è del 40%. Come si può recuperare? Con sostegni dello Stato, ma non saranno sufficienti, quindi bisogna tagliare i costi. Rispondendo a una domanda Tavares ha detto che farà di tutto per recuperare competitività, anche riducendo il costo del lavoro e l’occupazione. I giornali italiani non hanno dato spazio a questa affermazione rispetto alla quale le polemiche con il Governo Meloni, in apparenza veementi, sono punture di spillo.
Si polemizza sugli incentivi, ma certo il miliardo di euro stanziato dal Governo non è sufficiente. Innanzitutto alle auto prodotte in Italia ne andrà una quantità irrisoria, al massimo 120 milioni di euro, secondo i calcoli pubblicati ieri da Milano Finanza sulla base di un’analisi dettagliata dei modelli prodotti negli stabilimenti. Quanto all’ingresso dello Stato italiano nel capitale, per pareggiare il peso del Governo francese (il 6,1% che sale al 9,6% perché è socio da tre anni) occorrono 6,5 miliardi di euro e il Tesoro dovrà rastrellare per una quarantina di giorni tutte le azioni scambiate sul mercato. Ammesso che possa farlo, il Governo italiano si troverebbe di fronte Exor, Peugeot e Parigi uniti di fatto dall’accordo stipulato nel dicembre 2019, quindi non conterebbe nulla. Con una battuta Giancarlo Giorgetti ha liquidato ogni astratta velleità: “Entrerei piuttosto nella Ferrari”.
E se Meloni aumentasse gli incentivi e li spalmasse di più sulle auto prodotte in Italia e in particolare quelle ibride ed elettriche? Ammesso che ci siano le risorse, nessun sussidio per quanto ampio e costoso per le finanze statali (pardon per i contribuenti che pagano le tasse) potrebbe davvero ridurre i costi di produzione del 40%. Questi sono i fatti al di là delle polemiche, delle schermaglie, del chiacchiericcio quotidiano. Ciò vale per ogni Paese europeo e, chi più chi meno, per ogni produttore del vecchio continente. L’Italia è in una posizione più difficile perché qui c’è un solo costruttore, si è lasciato negli anni che la Fiat poi la Fiat Chrysler e ora Stellantis avessero il monopolio produttivo. Ha ragione il ministro Urso quando vorrebbe almeno un secondo produttore, ma oggi come oggi non c’è. La Spagna ha adottato la strategia migliore, pur avendo in casa un colosso come Volkswagen che possiede la Seat, ha aperto le porte a tutti e oggi proprio Stellantis è diventato il gruppo numero uno con quasi il 40% dell’intera produzione di vetture. Seguire il modello spagnolo sarebbe stato saggio, ma adesso è troppo tardi.
Non c’è incentivo che tenga, dunque, se si resta su una dimensione puramente nazionale. Nemmeno la Germania da sola è in grado di contrastare l’onda cinese. Occorre spostare il confronto a livello più alto, cioè adottando una politica europea. Che tipo di politica? Il protezionismo classico con dazi, imposte, tariffe?
C’è chi lo chiede anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Se a novembre vincesse Donald Trump seguirebbe questa strada. Ma anche Joe Biden viene facilmente indotto in tentazione. Si potrebbe prendere una via traversa, imponendo le stesse regole ecologiche e di sicurezza, però non sarebbe sufficiente perché i costruttori cinesi potrebbero applicarle e avere comunque vantaggi competitivi dovuti ai più bassi salari e alla più elevata produttività. Oppure si può agire imponendo quote annue come quando quarant’anni fa l’offensiva veniva dal Giappone. Ancor più in questo caso occorre una decisione europea, sovranazionale.
Forse la via migliore è un mix di bastone e carota all’interno di una politica europea per l’automobile come avvenne negli anni 80 per l’acciaio incalzato allora da giapponesi e coreani. Il piano D’Avignon funzionò, con costi sociali non indifferenti in Italia, in Francia, in Belgio, in Germania, ma la siderurgia europea cambiò volto e marcia. Oggi per far fronte all’impatto sull’occupazione ci sono strumenti comuni che allora non c’erano e la politica dell’auto può essere incardinata in modo organico nella più ampia transizione energetica e industriale che avrà bisogno di altre risorse, almeno pari a quelle stanziate dagli Stati Uniti.
Non sta a noi fare un contropiano, non ne abbiamo le competenze, vogliamo solo suggerire una strada applicando il buon senso che esiste, come diceva Manzoni, anche se troppo spesso sta nascosto per paura del senso comune.
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