Sembra che la crisi della manifattura europea non abbia toccato ancora il fondo. L’indice PMI del comparto relativo a novembre nell’Eurozona è, infatti, sceso a 45,2 punti dai 46 di ottobre. Nelle scorse settimane si sono poi susseguiti gli annunci di tagli e di esuberi da parte di diversi gruppi industriali europei. Tutto questo quando Donald Trump, visto come minaccia per l’Ue data la sua volontà di introdurre dei dazi, non si è ancora insediato. Secondo Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, «le due cose sono indipendenti. La mia sensazione è che le sanzioni di Trump colpiranno soprattutto la Cina e il Messico, reo di fungere da porta d’ingresso per diversi prodotti cinesi, meno l’Europa, cui pure qualche dazio verrà imposto».
C’è, quindi, una difficoltà endogena dell’industria europea.
Se guardiamo a quello che è accaduto negli ultimi 20-30 anni, l’Europa ha visto ridursi la propria presenza in una serie di settori avanzati. Basti pensare ai telefoni cellulari e agli smartphone, che non si producono più nel Vecchio continente, o all’industria farmaceutica che ormai ha stabilimenti principalmente in India. Ci restano poche posizioni di primo piano, come nel caso dell’aerospazio, ma per il resto abbiamo questa debolezza che si lega anche al rapido invecchiamento della popolazione.
C’è anche una debolezza politica visti i pochi voti raccolti dalla nuova Commissione al Parlamento europeo la scorsa settimana.
È esattamente quello che sta succedendo in quasi tutti i Paesi europei, basta guardare alla Francia e alla Germania. Italia e Spagna si comportano un po’ meglio. Il Paese iberico, pur avendo una maggioranza vacillante, è riuscito ad avere un’economia più brillante degli altri. Come noi grazie al turismo. Ma dietro questo settore, per quanto importante, occorre che ci sia anche un apparato produttivo in salute.
Ci vorrebbe una politica industriale europea o è un tema che deve essere gestito dai singoli Paesi?
Non è possibile pensare che venga gestita dai singoli Paesi, che tra l’altro sono sempre più indebitati. Serve, quindi, un intervento europeo, come già avvenuto ai tempi della pandemia con il Next Generation Eu, tramite la Bce, in modo che ci sia la liquidità sufficiente. Chiaramente ci sarà anche qualche effetto negativo in termini di maggior inflazione, ma al momento questa è l’unica “medicina” che abbiamo a disposizione.
Oltre ai fondi servirà anche una linea chiara su quello che c’è da fare.
Certamente. Secondo me, occorre puntare alla sopravvivenza europea a livello di primo piano nel mondo. Il rischio, infatti, è quello di scivolare in secondo piano visto che ci sono Paesi come l’India che continuano a crescere e ad affermarsi in alcuni comparti.
Occorre, però, evitare scelte che poi si rivelano essere dei “boomerang”, come quelle sull’auto.
Sì, c’è stato un colossale errore di valutazione del costo della transizione all’auto elettrica, anche solo per quel che riguarda le infrastrutture necessarie al loro utilizzo su medie e lunghe percorrenze. Oggi, di fatto i cittadini europei non vogliono comprare le vetture elettriche, non solo per il loro costo, ma anche perché non hanno molte certezze sulla loro obsolescenza.
C’è il rischio, visto quello che sta succedendo a livello politico in Francia, che ci sia un’altra crisi del debito sovrano in Europa?
C’è il rischio che si creino nuove tensioni. L’Italia ci ha convissuto per anni ed è stata aiutata anche dalla politica portata avanti dalla Bce. Per questo ritengo che debba essere prorogato l’attuale programma dell’Eurotower di riacquisto dei titoli di stato in scadenza a fine anno oppure che ne venga creato uno nuovo con lo stesso obiettivo.
(Lorenzo Torrisi)
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