“La situazione, a un mese e mezzo dall’inizio del conflitto, rimane tesa. Gli scontri a fuoco tra Libano e Israele sulla linea blu continuano, anche se sono molto localizzati, entro una fascia di quattro o cinque chilometri da una parte o dall’altra. Con occasionali attacchi un po’ più lontano, fuori dall’area delle operazioni, a Nord fino a 30 chilometri sempre dalla linea blu, mentre nella parte israeliana si è arrivati vicino ad Haifa. Questi ultimi, però, sono episodi sporadici, la maggior parte si verificano nella stessa zona”.
Andrea Tenenti è il portavoce e responsabile della comunicazione strategica di Unifil, la Forza ad interim delle Nazioni Unite in Libano, alla quale partecipano gli italiani, che in base a diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu è stata inviata al confine tra Libano e Israele per confermare il ritiro delle forze libanesi e come forza di interposizione che contribuisca alla pace. Da lì la pericolosità della guerra israelo-palestinese e il rischio che porti a una escalation delle operazioni militari sono palpabili. Anche se la constatazione che gli attacchi relativi all’area Sud del Libano, da una parte e dall’altra, non vadano oltre una fascia di pochi chilometri, fa presumere che non ci sia per il momento una vera volontà di allargare il conflitto. Gli scontri, tuttavia, non sono pochi, la possibilità che uno di questi, più grave del solito, faccia precipitare la situazione è sempre dietro l’angolo.
I lanci di missili dal Sud del Libano a Israele e viceversa sono all’ordine del giorno ma le parti sembra che si siano date delle regole entro le quali stare per evitare scontri con conseguenze più gravi. È così?
Ci sono queste regole, le sappiamo, anche se non sono scritte. Dopo cinque settimane di conflitto è più facile che il margine di errore sia abbastanza ampio, se non altro per il numero di episodi che si sono verificati. Purtroppo ci sono stati anche dei morti civili, come le quattro donne che sono state colpite mentre erano in macchina. Ci sono molte possibilità di cadere in un errore che possa scatenare un conflitto molto più ampio. La situazione è questa. La missione, comunque, è l’unica organizzazione che può dialogare con le parti.
Questi scontri in cosa consistono nei fatti? Sono quotidiani?
Sono lanci di razzi e missili, non c’è stato nessuno scontro con il passaggio di personale Hezbollah o di Israele da una parte o dall’altra. Avvengono giornalmente su tutta la fascia della linea blu, questo non confine: è la linea di demarcazione del ritiro delle forze israeliane nel 2000, non corrisponde a un vero confine ma un limite che non dovrebbe essere violato dalle parti. Tra i due Paesi non ci sono confini, non li hanno mai avuti: è stata solo utilizzata una mappa del 1948 per demarcare questa zona. Non c’è confine né dialogo: sono in guerra da sempre. Anche prima di questo conflitto monitoravamo la cessazione delle ostilità, ma non una pace.
Gli episodi hanno riguardato anche le basi Unifil?
Sì, diversi episodi, con razzi e proiettili che sono caduti sulle nostre basi, perché ne abbiamo 50, con contingenti di 47 Paesi per 10.500 soldati di cui 1.150 italiani.
Gli italiani, quindi, hanno una base loro?
Diverse basi, una sede centrale che è quella principale del settore Ovest, all’interno della quale ci sono contingenti di altri Paesi. Più due basi che sono proprio al “confine” e una un po’ più spostata vicina a quella centrale. Alcune parti di questi razzi sono finite anche in queste basi, senza creare danni. Ci sono stati anche dei feriti: un ghanese e un nepalese nelle loro rispettive basi. La sede centrale dell’Unifil a Naqoura è stata colpita diverse volte, sempre accidentalmente. Ci sono mille persone. L’Italia è presente con gli elicotteri, con i carabinieri.
Che cosa fate per cercare di ridurre le tensioni tra Israele e Libano?
Cerchiamo di tranquillizzare ma anche di fare da deterrente, facendo vedere inoltre alla popolazione che siamo presenti: anche quella è una parte importante. Monitoriamo la linea blu e la zona delle operazioni anche con le forze armate libanesi: la missione fa da supporto a questo esercito. Comandante e leadership della missione cercano di parlare con entrambe le parti, sia con l’esercito israeliano che con le autorità libanesi, tentando di diminuire lo spazio per le incomprensioni che possono portare a un’escalation del conflitto. Il fatto che entrambe le parti ci usino per mandarsi messaggi è un fatto positivo, significa anche che oltre un certo limite non vogliono andare, almeno per ora.
Nello specifico che tipo di messaggi si mandano tramite voi?
Sono messaggi per diminuire gli scontri, con un linguaggio che tradisce la tensione del momento. Riguardano avvertimenti per far sapere che se venissero colpiti alcuni obiettivi ci sarebbe una reazione di un certo tipo, per cercare di evitare l’uccisione dei civili; sono stati chiesti pure brevi cessate il fuoco per far sì che i feriti fossero evacuati dalla zona degli scontri.
Lo scambio di missili, proiettili e razzi avviene tra Hezbollah e Israele, ma voi non avete contatti diretti con Hezbollah. Riuscite a comunicare con loro?
Comunichiamo con le autorità libanesi, saranno loro a inviare messaggi a Hezbollah, che è una parte riconosciuta, militare e politica, del Libano. Stiamo parlando comunque di scontri tra due forze di grande importanza: qualche miscalculation potrebbe scatenare un conflitto regionale. Il potenziale per uno scontro su larga scala c’è tutto.
Ma cosa significa vivere in un periodo in cui gli scontri sono all’ordine del giorno?
Si è in una situazione di tensione continua perché non si sa mai quanto possano durare questi attacchi, quale sia l’impatto dei bombardamenti. Possono avvenire a tutte le ore, alle 3 di notte, alle 5 della mattina, nel pomeriggio. Quando sei nella base dovresti essere protetto, anche se quando suona l’allarme bisogna andare nei bunker: a volte è difficile mantenere un ritmo lavorativo e anche di sonno. Io faccio un po’ avanti e indietro con Beirut: rispetto al Sud del Libano è come andare in un altro Paese quanto a livello di preoccupazione. C’è ovunque, ma nella capitale molto meno perché è distante dalla zona del conflitto. Qui al confine la gente vive in uno stato di guerra con Israele praticamente da sempre. La sensazione di rabbia si percepiva anche prima di questo conflitto. Non vogliono la guerra ma sono stufi della situazione, anche a causa della crisi che sta attraversando il Paese.
L’Unifil fa anche interventi armati o si limita al monitoraggio?
Possiamo attivarci se veniamo attaccati, però al momento siamo una forza di mediazione. Se intervenissimo nel conflitto ne diventeremmo parte. Vogliamo continuare a essere visti come una forza imparziale.
Che rapporti avete con la popolazione locale?
Facciamo assistenza alle comunità locali: assistenza medica, veterinaria, donazioni, dialogo con la comunità, sostegno economico. L’Unifil non ha un mandato umanitario ma c’è la volontà da parte dell’Onu e di alcuni Paesi di contribuire a questo livello.
La gente cosa vi chiede?
In questo momento il Libano sta passando una delle più gravi crisi politiche, economiche e finanziarie: c’è una grande richiesta di assistenza per la ricostruzione di strutture pubbliche, di generatori ad esempio, di strade. Ma chiedono medicine, il supporto di dentisti o anche di veterinari. C’è una nutrita serie di attività, anche di training che viene fatto alla popolazione. Unifil è il secondo datore di lavoro dopo il governo del Libano, ha una grossa importanza anche come supporto finanziario. Le persone del Sud del Paese lavorano per la missione, tutti i contractor sono presi dalla popolazione locale. Le spese, anche per i diversi contingenti, vengono fatte nel Sud del Paese. Ci sono più di 10mila soldati, senza contare la parte civile con le famiglie.
(Paolo Rossetti)
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