Il 27 novembre, un mese fa, nelle strade di Teheran veniva ucciso a colpi di pistola in un agguato Mohsen Fakhrizadeh, l’Oppenheimer iraniano. Il super visore del programma di ricerca atomico è l’ultimo di una lunga serie ad essere vittima di eliminazioni mirate; si ricordi poco più di una anno fa, il 3 gennaio, l’uccisione di Qasem Soleimani, il capo della brigata Quds nonché responsabile di tutte le azioni militari e di sicurezza degli iraniani fuori dal paese. E degli altri quattro scienziati iraniani eliminati dal 2010 al 2012.



Se sulla responsabilità dell’atto, non rivendicato ufficialmente da nessuno, non sembrano esservi dubbi – Israele –, numerose sono le domande che solleva. Sul piano politico, si intende, perché sul terreno della legalità internazionale, per quello che vuol dire, ci sono pochi dubbi. Anche qui però sono notevoli le conseguenze politiche, perché questo atto è destinato a creare imbarazzo proprio nelle cancellerie europee pronte a condannare le azioni della Russia di Putin, usa a compiere omicidi mirati di avversari in paesi ospitanti. Si veda il caso dell’avvelenamento dell’oppositore russo Aleksej Navalnyj, ricoverato in coma a Berlino; l’eliminazione del cittadino georgiano Zelimkhan Khangoshvili sempre a Berlino il 23 agosto 2019, o il fallito avvelenamento dell’ex spia Skripal e della figlia nel marzo 2018 in Gran Bretagna.



Allora la prima domanda a cui si deve dare una risposta è il motivo, forse più di uno, che ha spinto Israele a compiere un’azione così dura. Le motivazioni ufficiali sono note, il regime di Teheran vuole eliminare Israele dalla faccia della terra e la costruzione di un arma nucleare in mano iraniane sarebbe di per sé una minaccia esistenziale per lo Stato ebraico.

Argomenti tutti veri, ma sempre veri, veri cioè in ogni momento da quando l’Iran ha iniziato la sua strada verso l’acquisizione del nucleare, che niente ci dicono però né sulla scelta dei tempi dell’operazione, né se siano collegati a qualche evoluzione sulla strada del nucleare iraniano. Per di più, l’importanza scientifica dello scienziato eliminato non sembra fondamentale, in grado cioè di rallentare il processo verso il nucleare militare.



Nel report di novembre dell’Agenzia atomica internazionale sul programma iraniano si legge che l’arricchimento dell’uranio era di dodici volte superiore ai livelli consentiti e normali per un uso pacifico dell’energia atomica. In più, l’Iran aveva continuato a installare nuove centrifughe nell’impianto di Natanz, e si era rifiutato di fornire informazioni complete sulle sue attività alla stessa agenzia gettando dubbi forti sulle sue reali intenzioni.

Motivazioni sufficienti allora per gettare il panico in Medio Oriente? Non sembra. A dirlo sono vari documenti dei servizi di sicurezza statunitensi secondo cui “l’Iran non è attualmente impegnato in attività chiave associate con il disegno e lo sviluppo di armi nucleari”, parole testuali a pagina 40 del documento preparato dal Dipartimento di Stato nel giugno di quest’anno. Ma d’altronde questa era la valutazione il gennaio scorso di Dan Coats, direttore dell’Agenzia di sicurezza nazionale cioè l’organismo che coordina e sovrintende tutti i servizi segreti americani compresa la Cia. “Noi non crediamo che l’Iran stia intraprendendo attività chiave che noi giudichiamo necessarie a produrre dispositivi nucleari”. Notizia riportata da Politico, che a sua volta l’ha ripresa dal prestigioso International Institute For Strategic Studies di Londra.

C’è da dire però che l’impegno iraniano per un’ascesa a potenza regionale a spese dei vicini, compresa l’Arabia Saudita e i paesi del Golfo, non è limitata alla possibile minaccia nucleare, ma come si sa si allarga ad azioni militari dall’Iraq allo Yemen, fino a Beirut e comprende un forsennato potenziamento delle sue forze armate. L’Iran infatti possiede il più vasto arsenale di missili balistici in Medio Oriente, secondo le stime del Center for Strategic and International Studies Missile Defense Project.

A disposizione di Teheran ci sono migliaia di missili a corto e a medio raggio, inoltre missili cruise capaci arrivare anche a 3mila km e colpire la Grecia e l’India, compreso ovviamente Israele. Se a questi ordigni si aggiunge che gli ayatollah riforniscono di missili anche gli Hezbollah libanesi e gli Houti in Yemen, si capisce quale minaccia l’Iran rappresenti per l’equilibrio dell’area. Non a caso Trump, giustificando la sua uscita dal Joint Comprensive Plan of Action che comprende Cina, Francia, Germania, Russia, Regno Unito e fino ad allora gli stessi Stati Uniti, adduceva proprio la mancanza di credibilità dell’interlocutore e la minaccia complessiva alla sicurezza che rappresentava, volendo inserire nella trattativa l’intera politica estera iraniana. Tutti argomenti che trovarono un fortissimo rifiuto dalla controparte.

Rimane allora sul tappeto la questione principale. Perché, se non c’era nessuna minaccia imminente né prossima, Israele ha proceduto all’eliminazione di Fakhrizadeh?

Per tre motivi. Il primo, far vedere alla nuova amministrazione Biden, più ben disposta verso l’Iran rispetto al presidente uscente, che nessun accordo è possibile senza il volere di Tel Aviv. Il secondo, far sentire sull’Iran una pressione costante proprio in un periodo così difficile per l’ex impero persiano, devastato dal Covid, con l’economia in difficoltà, con anni di prezzi del petrolio al limite, indebolito dalle sanzioni economiche Onu, sì finite ma di nuovo in vigore quelle americane. Il terzo, provocare il regime, sperando anche in una rabbiosa e immediata reazione di Teheran, costringendo gli Usa a impegnarsi direttamente. Escalation nei desideri anche di una parte dell’ex amministrazione americana, che aveva accarezzato infatti progetti interventistici.

Se non è chiaro quale dei precedenti obiettivi fosse quello principale, l’Iran si è dimostrato fin ora un avversario ostico, prudente, abile che ha sempre rinunciato a vendette rabbiose e repentine, capace di giocare su più tavoli, guardando ad est alla Cina, con cui sta rafforzando il partenariato strategico globale. Si veda il nuovo accordo, appena raggiunto, dal valore di 400 miliardi di dollari in 25 anni!

Infatti Teheran aspetta, non volendo costringere la nuova amministrazione a trovarsi davanti una strada già segnata, e intanto trasforma il colpo subito in una mezza cambiale. Ed è quindi lampante che il nuovo presidente degli Stati Uniti si troverà davanti ad un problema enorme, stretto nella morsa tra Israele e Teheran, dalla necessità di rassicurare Gerusalemme e dall’altra di convincere l’Iran a rinunciare all’arma nucleare, e tornare ai negoziati, fornendo agli ayatollah garanzie che non vi sarà nessun “regime change”. Che insomma quel paese non farà la fine della Libia di Gheddafi che, dopo aver rinunciato al programma atomico, fu bombardata dalla Nato.