Secondo l’ultimo Rapporto sulla stabilità finanziaria presentato ieri dalla Bce, sono diminuiti i rischi di una recessione nell’Eurozona, ma l’inasprimento delle condizioni di finanziamento sta mettendo a dura prova i conti pubblici, le imprese e le famiglie più vulnerabili. Tant’è che in uno studio pubblicato sul sito dell’Eurotower si legge che negli ultimi tre anni e mezzo le famiglie a più basso reddito hanno dovuto far spesso ricorso al credito al consumo, mentre quelle con reddito più elevato hanno ridotto la domanda di prestiti. Per certi versi, come evidenzia Luigi Campiglio, Professore di Politica economica dell’Università Cattolica di Milano, emerge un quadro simile a quello tratteggiato dal Rapporto annuale dell’Istat pubblicato mercoledì.
Ci spieghi meglio questa somiglianza.
Il Rapporto Istat mostra che a livello macro una ripresa c’è – il Pil è finalmente tornato ai livelli pre-crisi del 2008 e l’occupazione continua ad aumentare -, ma a livello micro emerge che la perdita di potere d’acquisto delle famiglie è stata veramente pesante nell’ultimo periodo, in particolare negli ultimi due anni, tant’è che cresce il lavoro povero. Ed è così che tra le famiglie a basso reddito è aumentato il ricorso al credito al consumo: i redditi da lavoro sono insufficienti.
Com’è possibile che l’economia cresca se c’è una parte delle famiglie che è in difficoltà?
Questo succede perché ci sono famiglie con redditi elevati e anche non pochi rentier. Oltretutto considerando che i prestiti a cui fanno ricorso le classe meno abbienti non sono finalizzati a investimenti in attività finanziarie, lo squilibrio rischia di aumentare. Tra l’altro è interessante notare un’altra cosa che si riallaccia alle difficoltà per i conti pubblici evidenziata dalla Bce.
Quale?
Che tra le attività finanziarie ci sono anche i titoli di stato. E nel 2022 la spesa per interessi sul debito pubblico in Italia ha superato il 4% del Pil. Questo è uno dei motivi sani per cui bisognerebbe contenere il disavanzo. A livello europeo, dagli anni ’80, a capeggiare la classifica sulla spesa per interessi in rapporto al Pil ci sono Grecia e Italia. Nei periodi di crisi, tale parametro in questi due Paesi è stato molto al di sopra della media europea e successivamente sono rimasti comunque sopra la media.
In ogni caso stiamo parlando di un problema, quello degli squilibri, che non riguarda solo l’Italia…
Esattamente, è un problema non solo italiano, ma anche europeo. E purtroppo non lascia intravvedere la possibilità di una più robusta ripresa economica endogena per il Vecchio continente. Il grande malato in questo momento, com’è noto, è la Germania. Mi sentirei in ogni caso di scommettere su una sua ripresa perché il potenziale produttivo tedesco a mio parere è sottodimensionato, così come le imprese e i settori parte della catena del valore legata alla Germania.
Qual è la causa di questa situazione: l’alta inflazione, i tassi di interesse elevati, le politiche fiscali restrittive o un insieme di queste?
Negli ultimi anni ci sono stati più shock che hanno colpito diversi settori e gli anelli più deboli delle catene produttive. Prendiamo, per esempio, i prezzi dei beni alimentari, il cui rialzo non ha giovato certo né ai coltivatori, né ai consumatori finali. Di fatto gli shock hanno accentuato gli squilibri dei poteri di mercato.
Quale può essere la soluzione di fronte a questo quadro poco incoraggiante?
Se non vogliamo una situazione che si avviti su se stessa, l’unica riposta è remunerare in modo più equilibrato il lavoro. Un tempo si parlava meritoriamente di politica dei redditi, che è sana perché non crea squilibri nella competitività. Se in un’impresa si registra un miglioramento nel posizionamento di mercato, se i profitti vanno bene, il modo migliore per prosperare è quello di aumentare il livello dei salari, così da contrastare la debolezza del mercato interno. Bisogna riequilibrare il potere d’acquisto, altrimenti non se ne esce. In Italia più che altrove, vista la situazione dei salari reali nel nostro Paese.
(Lorenzo Torrisi)
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