Gli ombrelli si chiudono, i salvagente si sgonfiano; non subito, non all’improvviso, con prudente lentezza, ma la nuova fase sta già cominciando. Lo dimostrano il rifiuto di rinviare ancora in blocco i licenziamenti e l’accordo con sindacati e Confindustria; seguiranno di qui a fine anno le moratorie sui mutui e sui prestiti, la liquidità garantita dallo Stato, il ritorno delle cartelle fiscali.



Mario Draghi nella sua lezione all’Accademia dei Lincei, giovedì scorso, ha tracciato un percorso ideale che delinea il progressivo rientro dall’iper-indebitamento, il passaggio dal debito cattivo (anche se inevitabile) a quello buono, suo cavallo di battaglia fin da quando lanciò questa distinzione quasi un anno fa, aprendo il Meeting di Rimini. Affinché la progressiva scomparsa di tutti i paracadute che hanno consentito all’Italia di cadere senza precipitare non si trasformi in un dramma sociale ancor più che economico, con evidenti ricadute politiche, occorre puntare sulla crescita e sulla produttività che ne rappresenta il lievito, tenendo conto che nel 2019 la produttività del sistema Italia era inferiore a quella del 2001. 



È questo il succo del messaggio lanciato da Draghi anche se pochi lo hanno sottolineato. I media hanno insistito piuttosto sulla necessità di mantenere politiche espansive perché la pandemia non è finita e la ripresa, anche se superiore al 4,2% previsto, non basterà da sola a compensare le perdite provocate dalla pandemia. Affermazioni importanti sia chiaro, ma che acquistano la loro vera dimensione se inquadrate in quello che è il passaggio chiave, l’esigenza di crescere di più di quanto si stima oggi, anche per contenere l’aumento del debito. “Se portiamo il tasso di crescita strutturale dell’economia oltre quello che avevamo prima della crisi sanitaria, saremo in grado di aumentare le entrate fiscali abbastanza da bilanciare l’aumento del debito che abbiamo emesso durante la pandemia”. Anche se utilizziamo un tasso d’interesse prudenzialmente alto, pari a 2,5%, il costo annuo di questo debito risulta essere pari a circa mezzo punto percentuale del Pil – ha calcolato Draghi -. Siccome le entrate del Governo ammontano in Italia e in Europa a circa il 40-50% del prodotto, è sufficiente incrementare il tasso di crescita strutturale di 1-1,2 punti per coprire il costo del debito degli ultimi due anni”.



Ci vorrà ancora molto tempo per assorbire gli effetti della pandemia. Dall’inizio della crisi, il Governo ha esteso alle imprese garanzie per 208 miliardi di euro e sostegni per quasi 100 miliardi. I sussidi hanno comunque comportato un aumento del debito pubblico. I prestiti bancari garantiti hanno fatto crescere il debito privato. Draghi ha parlato con tono e argomenti da banchiere centrale, ma ha toccato anche due punti politici importanti, uno squisitamente europeo e uno italiano. 

Il primo riguarda la riforma del Patto di stabilità alla quale occorre cominciare a lavorare, non solo a pensare già adesso, perché sarà dura più di una salita del Tour de France. Che sia necessario cambiarlo è evidente, nessuno potrà tornare a un disavanzo pubblico del 3% e a un debito del 60%, lo ha ricordato anche Angela Merkel, ma sul come cambiare cominciano i guai. Non è un caso che la Bundesbank abbia già invitato a tornare sul sentiero tradizionale riducendo gli acquisti di titoli e suonando un campanello d’allarme per lo stesso Governo tedesco che sta discutendo le linee della politica di bilancio in un anno elettorale. 

Di qui a settembre è tutto congelato in una Germania entrata in una sorta di semestre bianco, come accadrà fra poco anche all’Italia. Tuttavia si distribuiscono le carte e si formano le squadre. Tra falchi e colombe, Draghi si colloca in una posizione mediana: “Una risposta credibile consentirebbe di migliorare la capacità della zona euro di rispondere alle crisi e allo stesso tempo rafforzerebbe ulteriormente l’indipendenza della Bce”, ha detto aggiungendo tuttavia che “una politica fiscale espansiva non è in contrasto con la graduale discesa del rapporto tra debito e Prodotto interno lordo necessaria nel medio periodo per ridurre le fragilità di una sovraesposizione”. La condizione è che faccia davvero aumentare la crescita della produttività e del prodotto lordo. Torniamo insomma alla casella di partenza.

Il tema italiano riguarda la prospettiva di questo Governo. Draghi ha insistito ancora sulla “capacità di superare alcune di quelle che erano considerate barriere identitarie da parte della politica”. Lo scontro interno al Movimento 5 Stelle ripropone quelle barriere, al di là del conflitto di personalità tra Grillo e Conte o alla competizione per la leadership. E questo getta un’ombra minacciosa anche sul Governo. Il presidente del Consiglio ha cercato ancora una volta di dare una lettura meno emergenziale a questa esperienza singolare, spuria quanto si vuole, di grande coalizione. Essa rappresenta solo una tregua, in ogni caso è un’occasione che va colta fino in fondo: “È il momento favorevole per coniugare efficienza con equità, crescita con sostenibilità, tecnologia con occupazione. È un momento in cui torna a prevalere, come ho detto altre volte, il gusto del futuro. Viviamolo appieno, con determinazione e con solidarietà”. Il banchiere centrale torna così capo del governo.

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