Formalmente, si è dovuto attendere fino alle 14:15 di ieri pomeriggio per sapere che la Bce aveva alzato i tassi di altri 50 punti base, portando il benchmark al 2,5% e ponendosi in linea con quanto deciso da Fed e Bank of England. In realtà, quanto stava per accadere aveva avuto un silenzioso proxy tutto italiano nella giornata di mercoledì. A partire dall’incredibile question time che ha visto protagonista il ministro Giancarlo Giorgetti, attore di una difesa della non ratifica del Mes che parlava chiarissimo rispetto al punto di non ritorno raggiunto dai nostri conti pubblici. Di fatto, la mossa è tanto pericolosa quanto forzatamente obbligatoria: l’Italia punta tutto su una recessione profonda nel 2023, tanto per utilizzare il termine evocato da Christine Lagarde due settimane fa come unica conditio per uno stop al ciclo rialzista di Francoforte.



Solo uno shock macro-economico (o finanziario) degno della primavera 2020 e della pandemia, infatti, può generare il duplice miracolo, il morphing evocato proprio dal titolare del Mef: la trasformazione del Mes da strumento emergenziale di salvataggio a volàno di investimenti. A quel punto, ratifica e adesione saranno a tempo di record. E la faccia politica sarà salva, perché si potrà vendere all’elettorato la duplice vittoria della resistenza al cappio Ue e il ruolo da protagonista nella sua mutazione in nuovo veicolo di sostegno.



Tutto questo, però, ha un costo. E una dose di rischio connaturata alla gravità della situazione del nostro Paese. Il quale non solo vede il dibattito sugli emendamenti alla Manovra interno alla maggioranza in imbarazzante stato di impasse, quando mancano 15 giorni alla deadline che ci divide dall’esercizio provvisorio. Ben più grave è infatti quanto accaduto sempre mercoledì, poche ore dopo la performance da posseduto di Giancarlo Giorgetti. Sempre fonti del Mef facevano trapelare come non solo fosse stata accantonata l’ipotesi di proroga del superbonus 110% fino al 31 dicembre per i condomini, di fatto tracciando la linea nella sabbia al 25 novembre, ma, soprattutto, come circolasse l’intenzione di un ulteriore giro di vite sul Reddito di cittadinanza, la cui permanenza nella forma attuale dovrebbe scendere a sette mesi ulteriori. Lo stesso Giancarlo Giorgetti era stato chiaro: a fronte dei 90 miliardi totali di costi fra superbonus e bonus facciate, il nostro Paese avrebbe potuto abbattere il cuneo fiscale di 10 punti. Come dire, ora basta.



E le banche? E i rischi di insolvenza delle aziende del settore? In alternativa, ecco arrivare l’aumento a 3 del numero di cessioni crediti alle banche o intermediari certificati, oltre alla garanzia Sace sugli stessi. Qualcosa si è rotto, insomma. I conti, di colpo, hanno rivelato qualcosa che neppure i tecnici si attendevano. Non a caso, addio a ogni tipo di rivalutazione delle pensioni. Di fatto, il Governo sta già operando in modalità di esercizio provvisorio. Taglia unicamente, quasi a livello lineare. Roba da Mario Monti. Non a caso, l’Ue ha garantito via libera alla manovra, eccezion fatta per Pos e contante. E per le pensioni. Ma quanto fatto filtrare dal Mef nella notte fra mercoledì e giovedì, di fatto si sostanzia come un battito di tacchi a tempo di record al riguardo. Siamo sul filo. Ed ecco che quindi la mossa della Bce appariva in controluce e in trasparenza con almeno 12 ore di anticipo. E Francoforte, almeno a parole, ha giocato secondo le regole imposte dai rigoristi. I quali hanno sì incassato la sconfitta dei 50 punti base rispetto ai 75 prospettati come necessari da Germania, Austria e Olanda, ma hanno ottenuto un impegno a una stretta sul costo del denaro che continui su ritmi stabili e, soprattutto, la comparsa sul tavolo del board del QT, ovvero il dimagrimento del bilancio Bce. E con scadenze e controvalori: a partire da marzo e per 15 miliardi al mese fino alla fine del secondo trimestre, almeno. Di fatto, la certificazione della certezza opposta rispetto al wishful thinking italiano di una recessione tale da bloccare ogni ulteriore stretta. E, soprattutto, di trasformazione del Mes in una sorta di Recovery Fund 2.0.

Se infatti la Bce proseguirà sulla strada della vendita di bond acquistati durante il Pepp, questo imporrà l’impossibilità di un nuovo regime espansivo. Quindi, di fronte a noi lo scenario appare comunque lose-lose. Se la recessione sarà tale da bloccare i piani paralleli della Bundesbank, la nostra economia reale uscirà devastata. Se invece la tenuta macro consentirà alla Bce di proseguire nella normalizzazione della politica monetaria e di bilancio, ecco che ogni eventuale strappo sullo spread vedrà il Paese interessato costretto a un’unica via: il Tpi, ovvero lo scudo che garantisce acquisti mirati di debito ma a fronte di gravose condizionalità. Per accedere al quale, però, è necessario da statuto ratificare prima il Mes. Insomma, oltre al danno del commissariamento ufficiale, la beffa di una figuraccia politica con pochi precedenti per il Governo Meloni.

A livello di Banche centrali, ormai il dado sembra tratto. Se infatti la Bce si era portata avanti con il lavoro nel luglio del 2021, quando Christine Lagarde convocò d’urgenza il board per varare la forward guidance e dar vita al principio di inflazione simmetrica (ovvero, in banda di oscillazione e tolleranza tale da non applicare automaticamente interventi correttivi su scostamenti dal 2%), mercoledì sera Jerome Powell ha fatto capire – nel corso della conferenza stampa post-Fomc – come nel medio-lungo termine la prospettiva a cui prepararsi sia quella di un target inflazionistico più alto. Di fatto, il 3% che da tempo circola nei documenti e nei papers di Bri e Fmi. E la reazione del nostro spread alla prime notizie in arrivo da Francoforte ha fatto capire come il mercato sia conscio dell’azzardo in atto. E, a sua volta, navighi a vista.

Non fatevi abbindolare, l’Italia oggi è in una situazione di conti pubblici potenzialmente più pericolosa di quella del 2011. Non a caso, il Qatargate sembra essere l’unica notizia che interessa i media a livello stranamente bipartisan. Durante il question time, Giancarlo Giorgetti ha lanciato i dadi a nome del Governo. Ieri Christine Lagarde ha risposto. Chi cederà prima, la Bce o i nostri conti pubblici nella percezione che di essi hanno gli investitori? La risposta fa paura. Perché in un caso come nell’altro, alla fine tutto dipenderà soltanto dalla Banca centrale e dalla sua volontà di schermare il nostro premio di rischio.

L’iper-bellicismo e iper-giustizialismo sfoderati nelle ultime ore da Giorgia Meloni basterà a garantirle una sponda atlantica che faccia da contraltare alle tentazioni rigoriste del fronte del Nord europeo? Siamo nel pieno di un Risiko enorme, ogni mossa ne prevede un’altra. E chi sbaglia, è fuori.

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