Bild Zeitung, 15 settembre 2019: un fotomontaggio incastra la faccia di Mario Draghi sopra il colletto a punta del mantello di Dracula, inserendo due canini appuntiti nella sagoma della bocca semiaperta: “Vogliono riempirci di credito drogato”, strilla il titolo. E l’articolo dà la colpa al personaggio così ferocemente caricaturato: il “Conte Draghila”.
Non c’è, per fortuna, in Italia, un giornale popolare stravenduto come la Bild in Germania. Ce ne sono di peggiori ma non vendono niente. E quel giornale, che parla alla pancia tedesca, inchiodava l’uomo che in queste ore sta confrontandosi con gli omuncoli dei partitini italiani per trovare sostegni al suo Governo alla maschera del principe delle tenebre, lo definiva come il vampiro del benessere tedesco.
Ecco: quando ci chiediamo se Mario Draghi avrà gli attributi per camminare senza tremiti sui carboni ardenti di quel che resta dei Cinquestelle combusti, sulle spine dell’antieuropeismo leghista, sulle bucce di banana del meno affidabile degli sponsor – Matteo Renzi, manco a dirlo – sulla fibrillazione atrio-mentale del Pd, ripensiamo per un attimo a quella copertina.
Si ricordi per un minuto cosa diceva di Draghi il più potente banchiere centrale d’Europa, Jens Weidmann – Presidente della Bundesbank, banca centrale tedesca -nemmeno due anni fa: “Il pacchetto di stimoli varato da Draghi a sostegno dell’economia della zona euro è fatto di misure ‘non necessarie'”. È come entrare in classe nel primo giorno di scuola e sentirsi apostrofare dal preside: “Cosa ci fai tu, qui? Esci subito e torna accompagnato dai genitori!”.
Ecco: che ci stia simpatico o no, che lo si consideri o meno come un turpe emissario delle lobby massoplutogiudaiche della Goldman Sachs e del club Kirchberg, bene: Mario Draghi ha fatto spallucce perfino a una simile intimidazione.
Ora, stacchiamo la telecamere e inquadriamo la testaccia grigia e ricciuta di un mediocre comico di Sant’Ilario che ha detto di voler restare fedele a Conte. Ma chi tremerebbe di fronte a ruggito di un simile coniglio ubriaco? Nemmeno Cetto Laqualunque. Figuriamoci uno che ha mandato a quel Paese il feroce e potentissmo Weidmann. No, non saranno i nostri politiconzoli a impaurire Mario Draghi, che non alla propria competenza dovrà il sostegno di queste masnade, non al suo curriculum dovrà la propria stabilità al potere ma soltanto al loro disperato bisogno di non perdere la propria cadreghina. Se Draghi fallisce, chi s’è visto s’è visto: si vota, e anche per il solo effetto della riforma grillina che ha – autolesionisticamente – dimezzato il numero dei parlamentari, la metà di essi darà definitivamente addio a quindicimila euro al mese di appannaggi. Pur di evitarlo, voterebbero pure Belzebù.
Il vero nemico d Draghi sarà l’estrema, oggettiva difficoltà di fare efficacemente il suo nuovo lavoro. Non tanto nella parte più nobile di essa: riscrivere da zero l’aborto di Pnrr preparato finora dagli uscenti. Quella gli riuscirà presto e bene. No. Il difficile sarà l’ordinaria amministrazione. Il difficile sarà navigare in corrente, come Davy Crocket, tra i sassi del sottopotere, gli inciampi delle nomine, le botole degli emendamenti e le mine delle cosche elettrìci di decine di parlamentari non solo, ahinoi, meridionali.
Però stiano bene attenti tutti quanti. In primo luogo, Draghi non si è fatto intimidire nemmeno dai mandanti della caricatura vampiresca della Bild, quindi è serenamente uno che non ha paura dei guappi mediatici. Poi: non si può credere che gli sia difficile dover rispolverare il vecchio armamentario, perché per dieci anni Draghi è stato il direttore generale ministeriale più potente d’Italia, al ministero del Tesoro dal ’91 al 2001, lungo i governi Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, Amato e Berlusconi. I dieci anni più velenosi della nostra storia, quelli di Tangentopoli, delle stragi dei corleonesi, degli omicidi Falcone e Borsellino, dell’avviso di garanzia al Premier, delle più grandi privatizzazioni – e svendite! – d’Europa, dell’Opa Telecom, la più devastante del mondo, e ancora del ritorno irresistibile del Cavaliere a palazzo Chigi.
In quegli anni Draghi ha pesantemente messo le mani nel motore, come un meccanico. Sporcandosele di grasso. Accettando – e anzi “ingegnerizzando” – l’input politico andreattian-prodiano di saltare Mediobanca e gli altri, pochi, soliti noti italiani per privatizzare offrendo la mercanzia ai migliori offerenti internazionali, invitati coccolati e selezionati nella celebre crociera sul Britannia.
Alle strette, viene da chiedersi cosa saprà fare Draghi sul fronte Alitalia, il monumento all’assistenzialismo. Rinnoverà lo sperpero di fondi pubblici per la sopravvivenza di un’azienda insalvabile? E cosa farà del Monte dei Paschi di Siena, banca ex fallita, oggi statalizzata, in cerca di improbabile consorte? E come la pensa sul blocco dei licenziamenti, ormai già protratto oltre ogni limite?
La sua sensibilità sociale – non nuova, al contrario di ciò che può pensare chi lo conosca solo dall’articolo di marzo 2020 – non è di oggi, ma avrà gli anticorpi contro l’intrallazzo delle lobby che non lavorano certo per lo sviluppo? E dunque che farà Mario Draghi con le 500 nomine cruciali da fare nel giro dei prossimi sei mesi, con addosso gli appetiti di tutti i partiti, spasmodicamente protesi a insediarvi gli amici degli amici che potranno, al momento opportuno, sdebitarsi?
Farà quel che ritiene giusto, senza guardare in faccia a nessuno. Lo lapideranno, per questo: tenendosi però bene abbarbicati alla sua faccia, alla sua credibilità, l’unica e l’ultima forza capace di tutelare i 350 mila euro netti che ciascun parlamentare intascherà da qui alla fine della legislatura in corso, tra stipendio e prebende varie.
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