Lo scorso 18 aprile l’Algeria ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU una proposta per il passaggio della Palestina dallo status di osservatore a quello di membro effettivo dell’ONU. Su 15 componenti il Consiglio 12 hanno votato a favore, 2 si sono astenuti, Regno Unito e Svizzera, e gli Stati Uniti hanno posto il veto. La proposta non potrà quindi essere messa in discussione nell’Assemblea generale dell’ONU. Qui sarebbe stato necessario il voto di almeno due terzi dei 193 attuali membri, cosa non impossibile, vista la votazione nel Consiglio e l’assenza del diritto di veto nell’Assemblea.



La proposta dell’Algeria ha un forte connotato politico, di sostegno ai palestinesi e di pressione su Israele, dato che in questo momento è difficile considerare realmente esistente uno Stato palestinese. Tanto più che era pressoché impensabile che gli Stati Uniti non ponessero il veto, per quanto tese possano essere ora le relazioni tra Washington e Tel Aviv.



Nel suo intervento il rappresentante degli Stati Uniti ha dichiarato che il suo Paese sostiene la costituzione di uno Stato palestinese all’interno di un trattato globale di pace, di una soluzione di due Stati in cui sia assicurata la sicurezza di Israele. Ha poi spiegato che il veto deriva dal fatto che la Palestina non risponde ancora alle condizioni che l’ONU pone per l’ammissione come membro a pieno diritto. E che comunque è necessario un accordo diretto tra Palestina e Israele.

La soluzione dei due Stati è accettata da tutti i 15 membri del Consiglio, con sfumature diverse, spesso rilevanti, come la richiesta, sostenuta da Svizzera e Regno Unito, che prima si arrivi alla cessazione dell’attuale guerra a Gaza. C’è chi invece pensa che l’ammissione all’ONU faciliterebbe il processo di pace e la soluzione definitiva della questione palestinese, come Slovenia e Francia, che ha votato a favore della proposta algerina. Altri Paesi, Giappone, Malta, Mozambico, Sierra Leone e Algeria, contestano la posizione statunitense e sostengono la piena rispondenza ai criteri ONU della Palestina. E la Cina definisce “un triste giorno” la data del rigetto della ammissione.



Infine, vi è chi pone sotto accusa Israele, definita dal rappresentante della Guyana “potere occupante”, posizione sostenuta anche dalla Russia con toni molto duri contro Israele e Stati Uniti. Il veto degli Stati Uniti è definito “un tentativo senza speranza di fermare l’inevitabile corso della storia”.

In conclusione: un unanime accordo di principio sulla soluzione dei “due Stati”, ma poche indicazioni reali su come arrivarci. Sotto questo aspetto, poche speranze lascia il commento rilasciato dopo il voto dal rappresentante di Israele, iniziato con un ringraziamento agli Stati Uniti e in particolare al presidente Joseph Biden per essersi schierati per “la verità e la moralità di fronte all’ipocrisia e alla politica”. Segue poi l’accusa all’Autorità Palestinese di non controllare il suo territorio, di rappresentare solo metà dei palestinesi e di essere complice dei terroristi. Infine, chi ha votato in favore della proposta ha deciso di premiare il terrorismo palestinese, rendendo così impossibile la pace. Il finale è piuttosto dirompente: parlare con il Consiglio è come “parlare con il muro” e “prego che venga il giorno nel quale capirete l’ampiezza dell’errore che state facendo. Prego che lo capiate prima che sia troppo tardi”.

Questa dichiarazione è una conferma, ammesso che ve ne fosse bisogno, della volontà del governo israeliano di non attuare concretamente la politica dei “due Stati”. L’estrema destra religiosa, presente nell’attuale coalizione governativa, sembra aver fatto proprio lo slogan “dal fiume al mare” degli estremisti palestinesi, ovviamente a parti invertite. Un discorso che riguarda sia Gaza che la Cisgiordania.

Proprio in Cisgiordania il continuo ampliamento degli insediamenti di coloni ebrei sta evidenziando il progetto di rendere impossibile, o quantomeno di ridurre ai minimi termini, la costituzione di uno Stato palestinese. Una pericolosa situazione che suscita critiche anche all’interno di Israele, come dimostra un recente articolo apparso su The Jerusalem Post. L’autore pone in rilievo come l’IDF, l’esercito israeliano, si dimostri incapace di bloccare, e nemmeno di perseguire, le frequenti aggressioni di coloni israeliani in Cisgiordania contro civili palestinesi. L’articolo parla esplicitamente di “Jewish terrorism against Palestinians”, in parallelo con attentati palestinesi contro i coloni. L’autore sottolinea che questa situazione è moralmente inaccettabile e dannosa per l’immagine di Israele. Pone, inoltre, l’accento sulla differenza con il comportamento dell’IDF a Gaza, dove si è dimostrato pronto ad assumere la responsabilità di errori, come nel caso dell’attacco dei droni all’ONG World Central Kitchen.

Verrebbe da pensare che ciò che avviene in Cisgiordania sia considerato un fatto interno di Israele; se così fosse, avremmo un’ulteriore conferma della volontà dell’attuale governo israeliano di non aderire alla soluzione dei due Stati conclamata dall’ONU e dal superalleato di Washington.

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