“In pieno dibattito su piano Colao e Stati generali dell’economia c’è un aspetto che mi lascia del tutto basito: la ricchezza del paese, costituita dal tessuto connettivo, linfatico, delle micro e piccole imprese, che contribuiscono per il 60% all’economia italiana, resta la realtà assolutamente non guardata, non valutata, non considerata. Vale a dire: non stiamo guardando l’Italia, applichiamo degli schemi che prescindono dalla realtà. Questo non vuol dire non parlare di medie e grandi imprese, che sono certamente importanti: ma cosa ce ne facciamo del tronco se nelle periferie poi tutto si incancrenisce?”. Antonio Intiglietta, presidente di Ge.Fi e imprenditore vicino al mondo degli artigiani e delle micro imprese, non si dà pace di fronte all’assurdità di certi riti e di certi schemi che tendono sistematicamente a ignorare la risorsa, economica e sociale, che innerva l’Italia. E indica quattro punti di riscossa, tra l’altro finanziabili senza pesare troppo sui conti pubblici.



Il piano Colao, in alcuni punti, propone misure a favore delle Pmi. Non la soddisfano?

Prima di parlare del piano Colao, o degli Stati generali o della politica economica del paese, ammesso che ne abbia una, una premessa è doverosa.

Prego.

Tutta la classe dirigente italiana, dal governo in giù, è alla ricerca di spunti, di riflessioni e il piano Colao va appunto in questa direzione. Però, e su questo resto davvero basito, è come se si prescindesse sempre dalla realtà, facendo prevalere l’interpretazione della realtà, il “cosa vorremmo fare”, gli schemi precostituiti.



A quale realtà si riferisce?

Se si va al nocciolo, la ricchezza di questo paese la possiamo vedere solo dalla fotografia della realtà, che ne mostra in maniera plastica i punti di forza costitutivi: il 97% dell’economia e della struttura sociale del paese si regge sulle persone e sulle famiglie. Lo dice anche Colao, ma bisogna fare un passo in più: chi sono?

La sua risposta?

La parola che tutti usano oggi è Pmi, ma così la fotografia risulta sfuocata. Infatti la struttura linfatica dell’economia italiana è formata da micro e piccole imprese. Le micro, che sono la stragrande maggioranza, sono imprese che arrivano al massimo a 10 dipendenti, mentre le piccole vanno da 10 a 50 dipendenti. E se guardiamo ai fatturati, parliamo di grandezze che variano da 80-100mila euro fino a 2 milioni di euro.



Perché la definisce struttura linfatica?

È la struttura linfatica del territorio, perché è da lì che scaturisce la tenuta del paese. È già successo nella crisi del 2008: chi ha tenuto l’occupazione? chi ha tenuto duro? chi ha tenuto in piedi una socialità nelle città, nei borghi, nelle valli, nelle montagne? chi ancora oggi salvaguardia la natura, la cultura, la tradizione del lavoro? Sono loro, le micro e piccole imprese. Esprimono una struttura sociale a conduzione familiare che in modo reticolare vive intorno a una comunità, dove i dipendenti non possono essere considerati tali, perché sono collaboratori. È questo il vero tessuto connettivo, economico e sociale. Il guaio, però, è che non se lo fila nessuno. Ecco, la struttura portante del paese è la cenerentola da tutti, e sottolineo tutti, assolutamente non considerata. Questa è la drammatica verità.

Di cosa avrebbe bisogno questo tessuto linfatico?

Indico quattro punti d’intervento. Primo: lo Stato attraverso i Consorzi fidi esistenti faccia da garante in prima persona per finanziare programmi a medio-lungo termine, corrispondenti a un piano di ripresa e di rilancio dimensionato sui loro bilanci con tassi d’interesse vicini allo zero, massimo allo 0,5%. Del resto, non è forse vero che l’Unione Europea è disposta a prestare allo Stato risorse a fondo perduto? Perché allora lo Stato deve “marciare” su queste micro imprese? Oltre tutto, stiamo parlando di finanziamenti di qualche decina, tutt’al più qualche centinaio di migliaia di euro.

Secondo punto?

Queste imprese hanno bisogno nei prossimi due-tre anni di rilanciarsi sul mercato. Quindi, va agevolata, con risorse a fondo perduto, la partecipazione a eventi, manifestazioni e fiere, in Italia e in Europa, che sono per la stragrande maggioranza i mercati di riferimento. Dare loro dei placebo è come condannarle a morte. Il problema non è la sussistenza, ma l’esistenza. Perciò vanno messe nelle condizioni di rilanciarsi sul mercato, e anche in questo caso bastano poche centinaia di milioni di euro.

Terzo intervento?

Hanno bisogno di essere sostenute nell’innovazione tecnologica, di processo, di prodotto e di marketing, attraverso programmi che consentano loro di essere visibili, così da poter raccontare e mostrare come e cosa stanno innovando.

Siamo al quarto e ultimo punto.

Abolizione totale della burocrazia, con un totale rimando alle autocertificazioni. Cominciamo a trattare le persone con senso di responsabilità, e poi chi sbaglia paghi. Questo è un punto essenziale, perché la burocrazia è una palla al piede pesantissima per gli artigiani, tale per cui lo Stato non viene percepito come sostenitore, ma come problema.

In questi giorni si parla di un nuovo scostamento di bilancio, pari a una decina di miliardi, per sostenere, oltre a enti locali e scuola, anche turismo, artigiani e commercianti. Anziché distribuirli a pioggia, potrebbero essere in parte indirizzati a queste iniziative?

Certamente.

Che ruolo possono giocare le Regioni?

Avendo a che fare nella quotidianità con queste realtà, si dimostrano, indipendentemente dal colore politico delle giunte, più sensibili. Altro che centralizzazione e statalizzazione. Ma un punto deve essere chiaro: il contesto conta, creare le grandi connessioni Nord-Sud sull’asse tirrenico e adriatico o avere il 5G è essenziale, sono conditio sine qua non. Mi domando: servono tre mesi, centinaia di esperti e consulenti, task force e Stati generali per capire che bisogna mettere mano a questi investimenti infrastrutturali?

Dove porta il suo ragionamento?

Un decimo dei soldi dati all’Alitalia sarebbe sufficiente per supportare e aiutare questo tessuto connettivo del paese.

Perché nessuno ci pensa?

Lo trovo assurdo. È mai possibile che questa ricchezza fondante del paese sia la realtà più dimenticata? Ma cosa guarda la classe dirigente quando guarda questo paese? Non guarda la creatività, la bellezza, la bontà di quello che viene ogni giorno generato dal suo popolo? Ma di quali Stati generali, di quali consulenze c’è bisogno per capire tutto questo? Bisogna solo tornare ad Alexis Carrel.

Cosa c’entra Alexis Carrel?

“Molto ragionamento e poca osservazione conducono all’errore; molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”: è il principio di metodo di Alexis Carrel. Bisogna solo guardare, osservare, rendersi conto di quel che c’è, per poi mettersi al suo servizio. Invece si parte dalla costruzione di un’idea sulla realtà e poi si inventano mille escamotage.

Piano Colao, Stati generali dell’economia, task force a destra e a manca: secondo lei, questo bailamme nasconde solo un’incapacità di fondo a prendere decisioni, a imboccare una direzione chiara?

Certo. Si rimanda a mosse tattiche perché esiste un’inconsistenza della classe dirigente e politica. Manca la visione.

Proviamo allora a guardare oltre la bufera. Su cosa deve puntare la ripresa?

Se siamo il paese della bellezza e della bontà, come le salvaguardiamo? Dobbiamo salvare il soggetto umano che ne è l’espressione. Perché allora non mettere in piedi un Fondo nazionale per la ricostruzione di borghi, centri storici e dei punti dell’eccellenza italiana, dai prodotti alla cultura, dalla storia alla natura? Perché non investire nella rigenerazione di questo patrimonio, come stanno facendo alcuni investitori internazionali in netta controtendenza con la depressione che stiamo vivendo oggi? Perché non convogliare qui il risparmio degli italiani, con tassi d’interesse appetibili, così da generare un rilevante effetto leva virtuoso?

(Marco Biscella)

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