La giornata di martedì ha offerto dati interessanti relativi all’economia europea, tramite la diffusione dei dati sul Pil del primo trimestre dell’anno (+0,3% sia per l’Ue che per l’Eurozona) e sull’inflazione di aprile (+2,4% nell’area dell’euro). Secondo Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, «il quadro offerto dai dati sulla crescita è quello di un’Europa che segue il motto latino festina lente (affrettati lentamente). Di fatto non corriamo come potremmo, il potenziale è molto più elevato, ma è comunque un bene che l’anno si cominciato con il segno più».
Per quanto riguarda l’inflazione, l’Italia è l’unico grande Paese dove il dato di aprile (+0,9%) è ampiamente sotto la media dell’Eurozona e al target della Bce del 2%.
Sembra che in Italia si sia passati da un estremo all’altro, cioè da un’inflazione un po’ più alta del necessario a una più bassa del necessario.
Questo comporta dei rischi?
Il rallentamento dell’inflazione è anche il risultato di un’interazione tra domanda e offerta, nel senso che se la domanda diminuisce, l’aumento dei prezzi rallenta. Non è una dinamica molto buona dal punto di vista aggregato. Tuttavia, in tutto questo c’è un lato positivo.
Quale?
Di fronte ai dati sull’inflazione, non solo italiana ma dell’intera Eurozona, si può sperare che la Bce non dia un’ulteriore spinta verso una riduzione dell’attività economica. Il rallentamento dell’inflazione facilita, infatti, una manovra di allentamento dei tassi di interesse.
Se la Fed, come sembra, lascerà invariati i tassi, fino a quanto la Bce potrà spingersi a tagliarli senza che sorgano problemi sul fronte valutario?
La Fed, per quello che sappiamo, non è propensa a tagliare i tassi almeno fino alla fine dell’anno, quindi possiamo immaginare che si apra un divario tra Europa e Usa sul costo del denaro e questo può essere un problema, ma anche un’opportunità. Di certo l’impatto sul fronte valutario di un taglio della Bce a giugno non dovrebbe avere effetti negativi, ma potrebbe anzi favorire l’export.
Non c’è il rischio che le importazioni di materie prime energetiche diventino più costose per l’Europa?
Sì, è inutile nascondere che questo potrebbe essere un problema per l’Europa. Tuttavia, non è detto che porti poi necessariamente a una fiammata inflativa: dipende dal gioco tra domanda e offerta e oggi non c’è una particolare pressione della domanda. Inoltre, qualora si concretizzasse un rialzo delle materie prime bisognerebbe chiedersi chi sarebbe chiamato a farsene carico: ancora una volta i consumatori o le imprese riducendo i margini che in questi mesi sono stati piuttosto importanti?
Secondo l’Istat, dopo il primo trimestre la crescita italiana acquisita per il 2024 è pari al +0,5%. Vuol dire che a fine anno arriveremo al +1% stimato dal Governo?
Penso di sì, anche se occorre sempre chiedersi quanto saremo capaci di far fruttare le risorse che ancora per un paio di anni abbiamo a disposizione per effettuare gli investimenti di cui abbiamo bisogno come il pane. Mi riferisco alla messa a terra del Pnrr.
Quale rischio principale vede per la crescita dell’economia italiana?
Quello che potrebbe accadere, ma al momento fortunatamente non abbiamo segnali di questo genere, è che ci sia un ulteriore shock sul lato dell’offerta o della domanda. È possibile, quindi bisogna sempre restare cauti, ma al momento sembrerebbe un rischio remoto.
Qual è il suo commento, invece, sul dato relativo al Pil tedesco, tornato a crescere (+0,2%) dopo trimestri con il segno meno?
La Germania è chiamata a un grande sforzo, deve cambiare pelle, perché gli elementi che hanno fatto la sua fortuna negli anni Duemila non ci sono più. Non c’è più una frontiera dei mercati esteri, Cina in particolare, anzi rischia di subire l’invasione di auto elettriche del gigante asiatico. Ovviamente se l’economia tedesca continuerà a registrare dati positivi le ricadute per l’Italia non potranno che essere positive.
(Lorenzo Torrisi)
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