Dopo le parole del Presidente della Fed Jerome Powell e la serie di aumenti dei tassi decisi dalla Bank of England, nonché dalle banche centrali di Norvegia e Svizzera, è ormai evidente che la speranza di una rapida fine della stagione del rialzo dei tassi è ormai svanito. L’inflazione un po’ ovunque scende con lentezza esasperante, i rischi di spirali prezzi-salari restano in essere e in alcuni casi (Regno Unito) si stanno materializzando, alcune variabili dell’equazione, come i prezzi di energia e materie prime agricole, restano sottoposte a tensioni geopolitiche e al rischio climatico.
Era stato buon profeta Mario Draghi a sottolineare poche settimane fa che “le sfide che dobbiamo affrontare, dalla crisi climatica alla necessità di rafforzare la difesa, richiederanno livelli più elevati di spesa pubblica che metteranno ulteriore pressione sull’inflazione. A lungo termine, è probabile perciò che i tassi di interesse siano più elevati rispetto a quelli dell’ultimo decennio perché banche centrali più tolleranti con l’inflazione non saranno la soluzione”.
Quale sarà allora il rimedio? Una politica fiscale più rigorosa? Forse, ma non è affatto detto che le nostre economie possano reggere l’impatto di una recessione prolungata. O che questa sia la soluzione ideale per il prossimo futuro. Prendiamo la Germania: tante cose sono cambiate da dieci anni a questa parte. Un Paese di anziani ha accolto l’anno scorso 1,2 milioni di persone, la maggior iniezione di popolazione dai giorni dell’Unificazione, con un carico di problemi e di esigenze che non si conciliano con la politica del debito pubblico zero cara a Wolfgang Schaueble. È un’illusione pensare sia di poter tornare a una politica del rigore che a tassi in discesa sotto lo zero o quasi.
Certo, l’azione delle banche centrali riuscirà a contenere prima o poi l’ascesa dei prezzi. L’inflazione, quindi, scenderà. Lo farà lentamente nei servizi, che si confronteranno ancora per mesi con le rivendicazioni salariali di una forza lavoro impoverita, ma alla fine scenderà anche lì. Già a fine anno qualcuno potrà dichiarare missione compiuta. Ma il fuoco dell’inflazione continuerà a covare sotto la cenere, i tassi non torneranno ai livelli del 2019.
La recessione che verrà, se verrà, dovrà tener conto di una situazione quasi inedita, sia in Europa che negli Usa. Una serie di fattori renderà peculiare la recessione Usa che coinciderà con un aumento della spesa delle aziende in strumenti di produttività (leggi Intelligenza artificiale e automazione), e anche con forti investimenti in infrastrutture (la ricarica delle auto elettriche) e nel rientro in patria delle catene del valore.
Anche l’Europa, sotto lo stress della riconversione energetica e la prospettiva della ricostruzione dell’Ucraina, non potrà consentirsi il lusso di una crescita frenata: basti l’elenco degli investimenti in semiconduttori e gigafactory per le batterie a ridimensionare il rischio della recessione. Semmai, a livello globale, si può prevedere un rallentamento asincrono con aree che freneranno e altre che continueranno a crescere. Per limitarsi all’Europa, il risultato sarà il fallimento della richiesta tedesca per un ritorno alla disciplina fiscale degli anni del rigore. Stavolta l’insistenza della Bundesbank non basterà a ripristinare la politica del rigore o il Patto di stabilità così com’era prima della sua sospensione.
I tassi, insomma, saliranno, ma sarà cura delle banche centrali evitare che strozzino l’economia. Senza dimenticare, peraltro, che un po’ di inflazione non fa poi così male ai Paesi debitori come il nostro. Certo, in questi ultimi due anni c’è stata l’inflazione ma sono cresciute molto bene le entrate fiscali nominali per i Governi, i profitti nominali per le imprese, i valori nominali delle azioni e quelli delle cedole dei bond che cominciano a dare grosse soddisfazioni ai privati. In sostanza, l’inflazione ha compensato quasi pienamente il fortissimo aumento delle spese e il rapporto tra debito e Pil nominale è cambiato poco. I politici hanno potuto spendere a piene mani senza imporre nuove tasse. E gli investitori hanno potuto sentirsi soddisfatti dall’avere oggi, dopo anni di turbolenza, portafogli nominali un po’ più gonfi che nel 2019.
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