Nel corso della riunione ateniese della Bce la parola più citata, almeno a leggere il comunicato finale, è stata weak. Sì, hanno riconosciuto in coro i banchieri centrali, l’economia del Vecchio continente è davvero debole e rischia di frenare ancor di più. E così, per la prima volta in oltre due anni, la Bce non ha ritoccato i tassi in rialzo. Ben magra consolazione, se si guarda alla galoppata del costo del denaro, 450 punti base in più che hanno messo in ginocchio il settore immobiliare di mezza Europa, mutui e locazioni commerciali in testa, oltre a creare seri problemi ai ministri delle Finanze, Giancarlo Giorgetti in testa, investiti dalla tempesta della corsa dei tassi.



Ma per capire che i margini di manovra dei vertici della Bce sono davvero esigui è bastato dare uno sguardo alle agenzie che, poco prima della conferenza stampa della Presidente Lagarde, segnalavano che nel terzo trimestre il Pil Usa aveva registrato una crescita annualizzata del 4,9%. Una performance migliore delle già buone previsioni sostenuta per metà circa dal buon andamento dei consumi e per il resto dalla ricostituzione delle scorte, ma anche dalla spesa governativa, senz’altro destinata a crescere a fronte degli impegni della formidabile macchina bellica Usa.



Il dato peserà senz’altro sulle scelte della banca centrale americana. Non è escluso che la Fed, in linea con quanto fatto dalla Bce, lasci per ora invariati i tassi, accontentandosi della forza del dollaro (ai massimi da dieci mesi) e, soprattutto, dello spettacolare aumento del costo reale del denaro che nel corso della settimana ha sfondato il tetto del 5% per i T-bond decennali, un livello che non si vedeva dal 2007. È probabile, però, che entro l’anno Powell decida almeno un altro aumento dei tassi per tenere sotto contro l’inflazione.

La prossima conclusione della vertenza dei lavoratori dell’auto Usa che stanno strappando aumenti insperati alla Ford (e presto anche in Gm e Stellantis) lascia prevedere una forte ondata di richieste da parte del mondo del lavoro, forte di una congiuntura che resta solida al di là delle stime. Di qui la facile previsione che i tassi siano destinati a restare alti per lungo tempo (fino al prossimo autunno), finché l’inflazione, innescata dalla pandemia ma esasperata dagli errori do governi e banche centrali, non rientri nei ranghi.



La vera domanda a questo punto è se le economie, quelle europee in testa, saranno in grado di resistere a una quaresima prolungata, basata su un costo del denaro a questi livelli, sotto la minaccia di possibili nuove impennate dei valori energetici e delle altre materie prime. Il tutto in un clima geopolitico incandescente in cui la congiuntura può scappare di mano in qualsiasi momento. Insomma, l’incertezza regna sovrana. Lo conferma lo stesso andamento di Wall Street. Dalle trimestrali, pur solidissime dei giganti del tech, emerge una percezione nuova: più che gli ottimi profitti del trimestre conta un futuro più nebuloso, come conferma ad esempio il calo in Borsa di Meta (ex Facebook) nonostante gli ottimi conti.

Ma è giustificato il pessimismo sull’economia? In parte sì, vista l’incognita delle guerre in corso. È possibile fare calcolo sull’andamento dei tassi, assai meno sullo sviluppo di uno o più conflitti in cui confluiscono passioni e follie. In parte no, perché finora l’economia globale ha retto meglio del previsto. Chi avrebbe scommesso solo pochi mesi fa sullo stato di forma eccellente dell’economia Usa?

E la stessa Cina promette, con un forte incremento della spesa pubblica, di risalire al 5% di crescita entro l’anno. L’Europa intanto soffre ma non troppo nonostante il partner Usa continui a far pressing sulle aziende del Vecchio continente. Al di là del rumore molto forte prodotto dagli eventi geopolitici e dai dati macro, l’economia globale ha tenuto. Merito degli investimenti pubblici, nella difesa ma non solo, che negli ultimi trimestri hanno aggiunto almeno un punto percentuale alla crescita in America e in Europa e che presto torneranno anche in Cina a essere protagonisti. Questi investimenti continueranno, sospinti dalle esigenze del riarmo, della transizione energetica e dei settori tecnologici individuati come strategici. Il tempo ci dirà quanto siano stati efficienti. Nel breve sono senz’altro preziosi.

Insomma, la risposta è che, pur tra mille difficoltà, il percorso individuato dalle autorità monetarie e dalla politica fiscale può avere successo. Questo vale ovviamente anche per l’Italia, cui tocca uno dei compiti più difficili: il calo dell’inflazione, infatti, comporta un problema in più per i grandi debitori. Sperando che se ne ricordi anche Moody’s al momento di assegnare il suo voto.

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