Mentre il Decreto Superbonus proseguirà il suo iter parlamentare che, stando a quanto spiegato dal ministro dell’Economia Giorgetti, porterà all’obbligo di spalmare i crediti in dieci anni in modo da diluirne l’impatto sui conti pubblici, alla Camera dopo il 21 maggio verrà discussa una mozione del Movimento 5 Stelle (primo firmatario l’ex Premier Giuseppe Conte) che impegna il Governo a rinegoziare l’accordo sulla riforma del Patto di stabilità. I pentastellati citano anche uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces) in base al quale l’Italia potrebbe essere chiamata a tagli annuali al bilancio di 13,5 miliardi di euro nei prossimi sette anni. Abbiamo chiesto un commento a Domenico Lombardi, economista, direttore del Policy Observatory della Luiss ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale.



Cosa pensa della mozione del Movimento 5 Stelle?

La mozione evidenzia che l’Italia farà fatica a rispettare le nuove regole del Patto di stabilità e sottolinea l’esigenza di non penalizzare gli investimenti pubblici, per i quali non è previsto un trattamento differenziato. Lo studio della Ces citato da M5s pone tra l’altro l’enfasi sull’attuale sottoinvestimento in Europa rispetto alle soglie ritenute necessarie anche dal punto di vista della transizione green e dell’inclusività.



E in effetti, a parte una minima flessibilità fino al 2027 per quelli legati ai Pnrr, le regole del nuovo Patto di stabilità non sembrano privilegiare gli investimenti pubblici.

È un aspetto che è stato sollevato da molti economisti ed è inutile nascondere che l’accordo finale raggiunto sul nuovo Patto di stabilità non è quello auspicato da molti analisti, né da ampia parte della politica italiana. Il Governo stesso aveva articolato una posizione diversa, ma ha rinunciato a porre il veto, a mio avviso giustamente, per senso di responsabilità. Del resto, occorreva contemperare la coerenza delle proprie posizioni con l’esigenza di un consenso di un gruppo più ampio e vi era anche la necessità di non trasmettere segnali distorsivi ai mercati che potessero essere mal interpretati.



A proposito di senso di responsabilità, non si può trascurare il fatto che parte dei problemi per i conti pubblici italiani, com’è stato ricordato dal ministro Giorgetti ancora in questi giorni, derivano dal Superbonus voluto fortemente proprio da M5s…

Se l’Italia nei prossimi anni farà fatica a rispettare i parametri del nuovo Patto di stabilità sarà anche per colpa dei riverberi fiscali del Superbonus. Tornando alla riforma del Patto, ho trovato interessante la posizione espressa pochi giorni fa dalla Corte dei Conti in audizione alle commissioni Bilancio congiunte di Camera e Senato. Tra le righe si leggono fondamentalmente due cose. Anzitutto, una valutazione positiva rispetto all’impianto originario della proposta della Commissione europea, che prevedeva un approccio pluriennale alla stabilizzazione fiscale negoziata con i singoli Paesi membri. Va ricordato, tuttavia, che la portata di tale approccio è stata mitigata da paletti numerici con cadenza annuale.

Qual è invece il secondo aspetto che emerge dall’analisi della Corte dei Conti?

Vi è una valutazione più problematica rispetto al fatto che le nuove regole non sembrano considerare le esigenze sostanziali di investimento dell’Ue per la modernizzazione della propria economia. Tenuto conto non solo degli investimenti massicci necessari alla transizione ecologica, ma anche delle incertezze geopolitiche che l’Europa si trova ad attraversare, che implicano, anche se non sono citate esplicitamente dalla Corte dei Conti, maggiori spese per la difesa. Di fronte a queste esigenze, c’è un Patto di stabilità che va di fatto nella direzione esattamente contraria.

La Corte dei Conti esprime l’auspicio che “a livello europeo cresca, nei prossimi anni, la consapevolezza che la governance economica dell’Ue dovrà anche contribuire a rispondere alle difficili sfide connesse alle crisi in atto (climatica, energetica, geopolitica, ecc.) e alle relative implicazioni in termini di maggiori investimenti per la produzione di beni pubblici europei”. Dal momento che è difficile pensare che l’Italia possa chiedere da sola la rinegoziazione, questa sembra essere l’unica strada percorribile per una modifica del Patto di stabilità.

Un Paese che ogni anno deve rifinanziare il proprio debito, che anche grazie agli effetti del Superbonus è aumentato in modo considerevole, non può permettersi di trasmettere segnali che si prestino a valutazioni ambigue da parte dei mercati. Fino al 2026 nelle nuove regole del Patto di stabilità è previsto un margine di flessibilità relativo alla spesa per interessi sul debito e agli investimenti legati al Pnrr. Dal 2027, il Patto comincerà a mordere con tutta la sua capacità e questo creerà più di un problema per i Paesi a elevato debito. Credo che allora emergerà l’esigenza di una revisione del Patto. Detto questo, rimane la questione della sostenibilità fiscale per i Paesi ad alto debito che non si risolve annacquando le regole europee: per l’Italia c’è l’esigenza di mantenere una postura fiscale iper prudenziale.

Si avvicina intanto la riunione del Consiglio direttivo della Bce del 6 giugno. Il capoeconomista dell’Eurotower, Philip Lane, ha detto che gli ultimi dati macroeconomici hanno aumentato la possibilità di un taglio dei tassi. Allo stesso tempo Neel Kashkari, Presidente della Fed di Minneapolis, si è chiesto se sia davvero necessario un allentamento dei tassi negli Stati Uniti. A che prospettiva andiamo incontro?

Le dichiarazioni di Lane confermano che la Bce nella prossima riunione di giugno avvierà il ciclo di riduzione dei tassi. La Fed, invece, ritarderà l’avvio di tale ciclo. Tuttavia, come emerso dalle parole di Kashkari, sembra che questo ritardo, che inizialmente sembrava limitato, rischia di ampliarsi sempre più, anche sulla base degli ultimi dati.

A quali dati fa riferimento?

Osservando l’indice dei prezzi PCE monitorato dalla Fed si può notare che nei 12 mesi che terminano a marzo la componente core è aumentata del 2,8%. Il che sembrerebbe suggerire una stabilizzazione progressiva del dato inflativo. Tuttavia, considerando il primo trimestre dell’anno la crescita sale al 3,7%. Dunque, c’è un’importante distanza rispetto al target di medio periodo. Per quanto riguarda, invece, il mercato del lavoro, ad aprile sono stati creati circa 175.000 nuovi posti, meno dei 300.000 di marzo e al di sotto delle attese, tanto che il tasso di disoccupazione è aumentato dal 3,8% al 3,9%, Nel complesso, tuttavia, l’economia americana continua a crescere a piena capacità. Il che contribuisce ad allontanare nel tempo l’avvio del ciclo di riduzione dei tassi di interesse da parte della Fed.

(Lorenzo Torrisi)

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