Il debito buono è diventato cattivo. Il ritorno dall’economia sovvenzionata all’economia produttiva si sta dimostrando più difficile del previsto sia per quel che riguarda i conti pubblici sia, anzi ancor più, per l’impatto sociale. La “normalizzazione” è inevitabile, forse Giorgia Meloni sta pensando che avrebbe fatto meglio a lasciarla sulle spalle del governo Draghi, ma non era lei a spingere per le elezioni anticipate.



Una politica sempre sull’orlo di una crisi di nervi costringe la nuova legislatura a un debutto più difficile di quanto molti avevano previsto. La prima legge di bilancio è servita a confermare gli impegni di spesa precedenti. Adesso giungono al pettine nodi estremamente intrecciati, mentre cresce l’ansia che ad aprile possa essere bloccata la nuova tranche del Pnrr perché il piano s’è incagliato.



La questione che più crea tensioni riguarda la sorte del superbonus edilizio. È ormai chiara la distorsione provocata da quel che fin dall’inizio appariva come una sorta di regalo foriero di abusi e confusione. Così come è stato concepito e realizzato, un sostegno da parte dei conti pubblici pari al 110% della spesa da sostenere ha assorbito una quantità enorme di risorse (120 miliardi di euro finora) senza ottenere in cambio altrettanti benefici.

È vero, come sostengono i costruttori, che si è messa in moto un’edilizia di prossimità, tuttavia il meccanismo escogitato (sconto in fattura o cessione dei crediti fiscali a terzi) nasconde in sé il rischio di trasformare un incentivo a produrre in un sussidio assistenziale destinato (con il meccanismo della cessione dei crediti) a diventare una sorta di improprio bancomat. Non molto lontano dal meccanismo dei mutui subprime che negli Stati Uniti ha innescato il grande crac finanziario del 2008. Ora c’è un buco da 10-12 miliardi nel bilancio pubblico, mentre sono incagliati crediti per circa 15 miliardi di euro. Chi si è inventato il superbonus merita il Nobel per la non-economia. Intanto costruttori e inquilini sono sul piede di guerra.



Tra un paio di settimane cominciano a scadere il bonus bollette e tutta una serie di altri sostegni decisi durante la pandemia. Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti ha detto che il governo provvederà di volta in volta, intanto è alla ricerca di risorse che non ci sono. Per questo ritiene fondamentale bloccare gli sconti in fattura e la cessione dei crediti, i due meccanismi fuori controllo. I tempi stringono anche perché si cominciano a fare i conti pure a Bruxelles.

L’uscita dalla crisi con una economia che tira più del previsto spinge a mettere sotto osservazione la finanza pubblica. La crescita dovrebbe contribuire a ridurre il disavanzo, non ad aumentarlo. L’extra deficit non è più consentito, il divario dovrà scendere dal 5,6% del Pil al 4,5% quest’anno per arrivare al fatidico 3% nel 2024. L’aumento del Pil (in termini nominali, cioè inflazione compresa) ha consentito al debito pubblico di passare dal 150 al 147%, ma la media dell’eurozona è inferiore al 100% (esattamente 93% alla fine dello scorso anno). Il cammino verso la “normalità” è nettamente più rapido negli altri Paesi. Il debito italiano resta il peggiore dopo quello greco (178,2%), seguono Portogallo (120,1%), Spagna (115,6%), Francia (113,4%) e Belgio (106,3%).

È più che mai chiaro, a questo punto, che l’Italia ha bisogno come il pane del Pnrr. Il governo ha deciso di aumentare i poteri dell’esecutivo, allentare i vincoli archeologici ed estendere le deroghe all’intero anno, incentivando le assunzioni (la mancanza di personale è uno dei punti più critici) e semplificando le procedure per acquisti informatici. L’obiettivo di allungare i termini oltre il 2026 non è andato a buon fine. Il ministro Raffaele Fitto, sul quale si concentrano i maggiori poteri del governo, ha spiegato che “il governo lavora per rispettare la scadenza”, utilizzando i margini di flessibilità consentiti dal Consiglio europeo la settimana scorsa. L’eredità del passato è pesante, lo stesso ministro ha detto che l’Italia, uno dei Paesi che più beneficia dei fondi europei di coesione e nazionali, non è in grado di spendere. Dal 2014 al 2020 sono stati utilizzati solo 43 miliardi di euro, pari al 55% dell’obiettivo programmato, contro una media europea del 69%. Secondo il Pnrr quest’anno si dovranno impiegare quasi 42 miliardi, ma nel 2022 ne sono stati spesi 15 invece dei 29,4 programmati, secondo le stime dell’osservatorio della Bocconi. Intanto sta emergendo con grande evidenza l’impreparazione delle amministrazioni locali.

Non si tratta di gufare né di fasciarsi la testa, ma di far fronte a una sfida ardua per l’Italia; occorre che gli sforzi di governo, a Roma e in tutto il Paese, siano concentrati su questo piano strategico, con un atteggiamento critico, ma comunque cooperativo delle opposizioni. Le schermaglie di questi giorni, invece, ci riportano alle solite baruffe di una politica che parla tanto, ma fa molto poco.

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