Putin ha deciso: ogni possibilità di arrivare a un negoziato con Usa-Ue-Ucraina è impossibile nelle condizioni attuali. Decisione difficile, perché cede alle pressioni interne del cosiddetto “partito della guerra”, che critica Putin per essere stato troppo lasco, e segue la presa d’atto a Samarcanda che “l’amicizia senza fine” del cinese Xi Jinping ha dei limiti e che anche la Turchia inizia a tentennare sotto le minacce americane di sanzioni secondarie a chi usa il metodo di pagamento russo “Mir”.
Così, Putin mobilita e rinforza il fronte ucraino con una “mobilitazione parziale” raggiungendo la ratio 1:1 (attualmente è 1:4) e ha proclamato l’annessione nella Federazione russa dei territori delle quattro regioni ucraine “liberate”. Il referendum, che si è svolto tra il 23 e il 27 settembre, a favore dell’annessione è stata una formalità procedurale dall’esito scontato. Come scontato è stato il rifiuto degli occidentali di riconoscerne l’esito.
Ma la realtà sul terreno conta. In pratica, la logica della decisione è un richiamo alla realtà contro la narrazione occidentale. Il messaggio implicito nel referendum è che chi attacca le regioni annesse alla Federazione attacca la Russia, com’è già stato per la Crimea nel 2014. La conseguenza è che la risposta a un attacco sarà giustificata dall’aggressione alla Russia. Putin in tv ha detto: l’obiettivo dell’Occidente è “indebolire, dividere e distruggere la Russia”, ma “l’integrità territoriale della nostra patria sarà assicurata con ogni mezzo”.
Messaggio neanche troppo implicito agli americani: come Taiwan è parte integrante della Cina, così anche le regioni dell’Ucraina sono parte integrante della Federazione russa. Volete provare a prenderne il controllo? Prego, venite avanti! Una decisione che evidentemente è stata discussa a porte chiuse a Samarcanda. Una decisione che lancia un siluro al duo Biden-Sullivan a poche settimane dalle elezioni americane di mid-term, e che mette nei guai i governi europei e l’Ue. Si tratta della “Nave dei folli” evocata dal noto filosofo francese Michel Onfray, oppure è la trasformazione della “partita a scacchi in un poker” con l’Occidente?
Come abbiamo scritto su queste pagine, gli Stati Uniti sono avviluppati in una violenta spirale interna di conflitto tra le tre oligarchie che dominano lo scenario politico, sociale ed economico; l’Unione europea persegue nel piano suicidario-sanzionatorio eseguendo gli ordini di una delle tre oligarchie americane, quella globalista; e la Nato non promette nulla di buono aspettando ordini da Washington, mentre sorvola con i suoi cyber-apparecchi Ucraina e Mar Nero.
Intanto, le banche di investimento americane iniziano a rompere le righe. Alcune di esse (ad esempio, JP Morgan in Europa, seguita da Credit Suisse e altre) non sono affatto convinte dell’approccio globalista anti-russo e anti-cinese che affossa la globalizzazione (e quindi il commercio e il business); altre banche (ad esempio, la draghiana e barrosiana Goldman Sachs, sempre più weaponized, seguita da una parte della City e dalla Ue del duo von der Leyen-Borrell sostenuti da un incomprensibile Parlamento europeo) vedono nella guerra un grande affare e perseguono la distruzione della globalizzazione; infine, un terzo gruppo di banchieri/fondi d’investimento (ad esempio, Blackrock) – quelli più dotati nella gestione dei derivati delle commodities, tech e pharma – mantengono un approccio neutralista, ma non sono sedotti dalla guerra (tranne che per gli enormi fondi pubblici girati al complesso militare industriale). Un guazzabuglio che sarà pagato da qualcuno. Chi? Be’, facile: il salvadanaio europeo verrà svuotato! Benvenuti negli anni Trenta di ritorno, quasi un secolo più tardi.
Come scrive Ian Bremmer nel suo recente libro Il potere della crisi, nonostante i suoi tentativi, un po’ facili, di vedere una luce in fondo al tunnel, è evidente sia il processo implosivo interno agli Usa sia l’elevato rischio di collisione esterna dettata dalla paura che genera il primo. Anche evidente è la totale marginalizzazione della Ue, che nel migliore degli scenari può funzionare da metodo per lo sviluppo di regolamentazioni globali ma che non ha nessuna prospettiva di innovazione e sviluppo.
Secondo Bremmer, sono tre gli scenari occidentali: a) lo Stato regna sovrano/vincono i campioni nazionali; b) le aziende soggiogano lo Stato/vincono i globalisti; c) lo Stato svanisce/vincono i tecnoutopisti.
Nello scenario a) le aziende patriottiche sono allineate all’interesse nazionale (la Cina prevale, l’Occidente arranca, tentando alleanze di contenimento, in entrambi il governo è il soccorritore di ultima istanza). La chiave di volta è la ripresa post-pandemica e la transizione verde (la Cina sembra aver avuto più successo).
Nello scenario b) il governo continua a indebolirsi e le autorità regolatorie non riescono a tenere il passo con l’innovazione. Le forze globaliste possono fare a meno dei sistemi democratici, ma hanno bisogno di stabilità con prospettive decennali. Quindi i globalisti sono contrari alle logiche degli apparati che, imponendo una nuova Guerra fredda, li costringerebbero a scegliere tra Usa e Cina. In questo scenario l’Ue è già fatta fuori, mentre la Cina ha un evidente vantaggio con i suoi strumenti finanziari, commerciali e infrastrutturali. Gli Usa sono al bivio.
Nello scenario c) la crescente sfiducia dei cittadini nei confronti dei politici dissolve il contratto sociale, l’economia digitale tiene a debita distanza i governi e la fiducia nel dollaro in quanto moneta di riserva globale viene meno. La disintegrazione del potere centralizzato in Usa metterebbe in difficoltà la Cina e disintegrerebbe la Ue. Infatti la Cina ha già preso provvedimenti verso i suoi tecnoutopisti (ad esempio, il caso Alibaba). Unica speranza, conclude Bremmer, è uscire dalla competizione strategica per aprire spazi di collaborazione tecnologica. Perché ciò avvenga, ci vuole una “giusta crisi” che spazzi via le vecchie leadership e idee. Finora la crisi pandemica e del climate change non sono state sufficienti.
Come negli anni tra il 1920 e il 1938, c’è un solo punto sul quale i “signori” del capitale concordano: il costo dei sistemi democratici non è compatibile con gli obiettivi di profitto del capitale. Tradotto in termini politici, allora come oggi, il capitale preferisce sistemi centralizzati a bassa democrazia, efficienti e sicuri (cioè che deliverano senza condizioni!). Quindi, dopo le esercitazioni condotte con la bacchetta del terrore climatico e pandemico, non è un caso che le destre – quelle vere e strutturali – tornino a far sentire la loro voce dalla Svezia alla Spagna, dalla Polonia all’Italia, dalla Francia alla Serbia.
Non illudiamoci, i conservatori inglesi guidati da Liz Truss o i repubblicani americani (con o senza Trump) vanno nella stessa direzione. Ma la madre di tutte le destre strutturali è storicamente la Germania con il corollario di alcuni paesi dell’Est europeo. Dai tempi guglielmini in Germania sono gli industriali che determinano le scelte dei governi (e nelle elezioni). Senza ideologia e senza carisma, il cancelliere socialdemocratico Scholz è avvertito. Con alcune differenze, anche i nazionalismi russi, cinesi e indiani si ispirano al Lebensraum. E che dire di Israele che vedrà a breve il ritorno trionfale elettorale del più destro di tutti, Netanyahu? Quell’Israele che in materia di “territori occupati” è un inequivocabile battistrada al quale nessuno impone sanzioni o vuole cacciarlo dall’Onu.
A fronte di questa innegabile tendenza, gli attacchi dell’inconsapevole Letta al “fascismo” dell’italiana Meloni fanno ridere, perché sono un’ingenua mistificazione tipica di un Paese da operetta. Ma le centrali di disinformazione globaliste, con le quinte colonne anglo-italiane, incessantemente continuano ad attaccare l’Italia uscita dalle urne il 25 settembre. Un gioco facile, fin troppo, che serve a nascondere il tracollo dell’ordine liberale iniziato negli anni 70, esploso nel 2001, maturato nel 2008, e oggi ormai inservibile. Al rule-based-order fanno finta di credere solo Ursula von der Leyen e Joseph Borrell, maggiordomi di un mondo che fu.
Uno degli “architetti del disastroso capitalismo” degli anni 90, tra i principali consiglieri economici della Russia post-sovietica che sprofondò nel caos eltsiniano, il noto economista americano Jeffrey Sachs (Harvard, Columbia), convertitosi ai temi sociali e ambientali, fresco della partecipazione al Festival dell’Economia civile tenutosi a Firenze, ha recentemente rilasciato un’intervista nella quale, senza mezzi termini, condanna “l’implacabile narrativa occidentale secondo cui l’Occidente è nobile, mentre Russia e Cina sono malvagie”. Sostiene che la narrativa occidentale è “un tentativo di manipolare l’opinione pubblica” sotto la “guida degli Stati Uniti”, che pretendono di ignorare le “vere cause delle guerre in atto per rimanere potenza egemonica mondiale, aumentando le alleanze militari in tutto il mondo per sconfiggere Cina e Russia”.
Concludendo, parla di un “momento di estremo pericolo, di idee deliranti e fuori moda” che “non dovrebbero essere seguite dall’Europa”. D’altra parte, il lucido e duro monito di Michel Onfray va nella stessa direzione: “La civiltà giudaico-cristiana è una barca che affonda. Siamo entrati in un periodo di transizione”.
(1 – continua)
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