Nei giorni scorsi c’è stata una breve polemica, fortunatamente prontamente sopita, tra un autorevole componente del Governo Meloni nei confronti dei vertici della Banca centrale europea e della loro indipendenza dalle esigenze e scelte dei Governi degli Stati membri.

Come in tutte le Banche centrali nazionali, tranne che in Paesi autoritari come la Federazione Russa, la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica dell’Unione del Myanmar (un tempo non lontano conosciuta come Birmania), i vertici sono nominati dai Governi secondo procedure note e trasparenti, ma durante la loro permanenza in carica sono autonomi e indipendenti anche a ragione del loro lavoro che richiede decisioni rapide e che tengano conto dell’andamento dei mercati finanziari internazionali.



A mio avviso, negli ultimi sei mesi, la Bce non è esente da critiche soprattutto perché ha sottovalutato la portata e lo spessore dell’inflazione e, quindi, quando si è dovuta muovere, ha dovuto farlo con un’energia forse eccessiva anche perché è mutata la maggioranza in seno al suo Consiglio direttivo e quel che più conta del suo Comitato esecutivo.



Negli ultimi anni, tuttavia, la Bce è stata particolarmente attenta alle esigenze dell’Italia, non solo mantenendo a lungo il Quantitative easing (e, quindi, bassi tassi d’interesse) ed effettuando acquisti netti di titoli del debito pubblico italiano per oltre 400 miliardi di euro, di cui oltre 300 miliardi tramite il Pepp (il programma per fare fronte alla pandemia ed alla risultante emergenza sanitaria).

Nei prossimi cinque anni (la durata – si spera – di un Governo che porti stabilità al Paese e lo rimetta su un binario di crescita, pur se moderata date le caratteristiche della nostra demografia e di un’economia dominata da un terziario poco avanzato), l’Italia avrà bisogno di una collaborazione stretta con l’Unione europea per supporto nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (un contratto vincolante tra Roma e tutti gli altri Stati dell’Ue) e comprensione nella realizzazione di alcune riforme che sembrano ostiche a uno dei partiti (ora minoritario) della maggioranza, ulteriori finanziamenti a titolo, eventualmente, di un nuovo Next Generation Eu e, soprattutto, di una revisione del Patto di stabilità e crescita che tenga conto delle peculiarità di un Paese a bassa produttività e governato negli ultimi dieci anni in modo discutibile.



Nell’esaminare il decennio appena trascorso, nel libro “L’inquilino” (Feltrinelli 2022), Lucia Annunziata (che non può essere certo tacciata di avere contiguità politiche con il centrodestra) ricostruisce meticolosamente, in circa 600 pagine, questi dieci anni. Se ne ricava un quadro desolante: Governi tormentati quasi dal giorno successivo della loro entrata in carica, non tanto per differenze di “visione politica” ma per questioni di potere, prima tra tutte “le nomine” nella galassia delle società a partecipazione statale. Altra connotazione del decennio: la presenza in quasi tutti i sette governi di un Partito democratico, Pd, nato “a vocazione maggioritaria” e ridotto a uno “scampolo” come quelli che si offrono a prezzo scontato nelle liquidazioni che iniziano, di solito, subito dopo l’Epifania.

L’Italia deve soprattutto evitare di cadere nella trappola in cui si ficcato il primo Governo Conte, auto-persuadendosi di questi tre argomenti:

a) L’Italia non è messa così male se si tiene conto dell’alto livello di risparmio privato.

b) L’Italia è uno dei Paesi fondatori dell’Ue ed in aggiunta too big to fail.

c) L’Ue non può essere indifferente alle implicazione di un’austerità che grava soprattutto sui ceti a reddito basso.

Il primo punto implicherebbe la volontà e la possibilità di realizzazione politica senza troppi scossoni, di una forte “patrimoniale straordinaria”, per trasferire ricchezza del privato alla Pubblica amministrazione. Per il secondo, il too big to fail è stato smentito dalla crisi finanziaria del 2008-2009 quando un colosso apparentemente imbattibile come Neiman Marcus è stato costretto a chiudere battenti e fare gli scatoloni. Per il terzo la risposta è nell’aver dato all’Italia la maggiore allocazione della facility del Next Generation Eu, la base per le riforme e gli investimenti del Pnrr.

Un autorevole Ministro del Governo Meloni, Adolfo Urso, ama ripetere che si sente in primo luogo, italiano, in secondo europeo e in terzo atlantico. L’approccio mi pare corretto: difendere, anzi promuovere, gli interessi dell’Italia in un quadro europeo, conoscendone gli aspetti, e partecipare attivamente alla comune difesa atlantica.

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