L’Europa è stata per diversi mesi in bilico tra inflazione e recessione. O meglio se temere più la prima o la seconda. E, quindi, quali politiche economiche e finanziarie adottare. Le vicende delle ultima parte della settimana scorsa – il Consiglio europeo dei capi di Stato e di Governo dell’Unione europea e il Consiglio della Banca centrale europea – hanno mostrato che, in questa fase, l’inflazione fa più paura alle sfere alte della politica europea della recessione.



Ciò indica anche che i Paesi nordici (soprattutto la Repubblica Federale Tedesca e l’Olanda) hanno un maggior peso dei Paesi mediterranei e della Francia nell’Ue e nelle sue procedure decisionali. Gli screzi tra Francia e Italia sulle migrazioni e lo scandalo sulla corruzione al Parlamento europeo (che per ora coinvolge parlamentari italiani e francesi) hanno avuto, a mio avviso, un ruolo in questo aumento di peso di Germania e Paesi Bassi nel processo in cui vengono formulate le decisioni Ue.



La scelta della Bce di aumentare i tassi (e di annunciare che ci saranno ulteriori aumenti nel 2023 sino a quando l’inflazione sarà sotto controllo e tenderà al 2% l’anno come previsto negli statuti della Banca) e di avviare una fase di Quantitative tightening (Qt) è una chiara indicazione che le autorità monetarie europee, al pari di quelle americane, rimpiangono di avere sottovalutato le pressioni inflazionistiche in atto sin dagli ultimi mesi del 2021 e di averle considerate “temporanee”. Analogamente, le “osservazioni” della Commissione europea sui Documenti programmatici di bilancio degli Stati membri – “osservazioni” pubblicate in queste ultime due settimane – dimostrano che viene auspicata una politica di bilancio “prudente” e non tale da temperare le restrizioni monetarie con misure espansionistiche dal lato della finanza pubblica, specialmente degli investimenti pubblici.



Ora la Bce ora vede l’inflazione media raggiungere l’8,4% nel 2022 prima di scendere al 6,3% nel 2023, con un aumento dei prezzi che dovrebbe diminuire notevolmente nel corso dell’anno. Secondo la Bce, l’inflazione dovrebbe raggiungere una media del 3,4% nel 2024 e del 2,3% nel 2025. La “core inflation”, ossia l’aumento dei prezzi al netto di energia e cibo, dovrebbe essere in media del 3,9% nel 2022 e salire al 4,2% nel 2023, prima di scendere al 2,8% nel 2024 e al 2,4% nel 2025. Sul fronte della crescita, le proiezioni vedono ora l’economia dell’unione monetaria in aumento del 3,4% nel 2022, dello 0,5% nel 2023, dell’1,9% nel 2024 e dell’1,8% nel 2025. Un’eventuale recessione, quindi, sarebbe relativamente breve e poco profonda, secondo la Bce.

Occorre chiedersi se la Bce non pecchi di ottimismo ancora una volta come quando, circa un anno fa, considerava “temporanee” le pulsioni inflazionistiche e se la Commissione europea non mostri una certa superficialità nel limitarsi a raccomandare “prudenza” nella finanza pubblica.

Per calmare l’inflazione senza mettere a repentaglio la crescita o, peggio, scivolare in una recessione più profonda di quella stimata dalla Bce (anche senza tornare a quella scatenata dalle misure monetarie adottate negli Stati Uniti, e seguite da numerosi Paesi europei, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso), ci si può basare solo sulla politica della moneta e sulla “prudenza” della politica di finanza pubblica?

Non credo. Per quanto riguarda l’Italia, un lavoro dell’Istituto Bruno Leoni, firmato da Giacomo Da Ros (fellow dell’Istituto) e Carlo Stagnaro (direttore ricerche e studi dell’Ibl) suggerisce una serie di riforme che potrebbero determinare risparmi consistenti, pari a circa 900 euro all’anno per la famiglia media, nei settori dell’energia, del trasporto pubblico locale, negli stili di vita e nella spesa farmaceutica. Lo studio si intitola «Modeste proposte contro l’inflazione: misure a costo zero (o quasi) su energia, trasporto pubblico, stili di vita e farmacie» ed è liberamente disponibile sul sito dell’Istituto. Da Ros e Stagnaro mostrano come una maggiore concorrenza o una razionalizzazione dell’imposizione fiscale possano contribuire a significativi risparmi sul bilancio familiare. In particolare, i temi presi in considerazione sono l’energia (elettricità, gas e carburanti), il trasporto pubblico locale, gli stili di vita (bevande alcoliche, prodotti a base di nicotina e soft drink) e la spesa farmaceutica privata.

Le riforme suggerite vanno quasi sempre nella direzione di una maggiore concorrenza: il superamento dei regimi di tutela per l’energia elettrica e il gas, l’eliminazione dei vincoli all’apertura di nuove stazioni di rifornimento (in particolare presso i supermercati), la liberalizzazione dei farmaci di fascia C e l’affidamento tramite gara dei servizi di trasporto pubblico locale oltre al rafforzamento della concorrenza nel trasporto su medio-lunga percorrenza (ferroviario e bus). In altri casi, gli autori propongono una razionalizzazione del sistema tributario (per esempio, allineando l’imposizione fiscale su benzina e gasolio a un valore intermedio tra le attuali accise e quelle che ci saranno quando verranno superati gli sconti temporaneamente in vigore) e invitano a evitare di introdurre nuove tasse o di aumentare quelle esistenti (come nel caso dei prodotti a base di nicotina, della plastic tax e della sugar tax). Ciascuna delle proposte è quantizzata accuratamente. Esistono lavori analisi per altri Paesi dell’Ue.

Sappiamo che il Pnrr pone l’accento su riforme mirate ad aumentare la concorrenza. È anche noto che in Italia il Consiglio dei ministri del 16 dicembre ha preso misure importanti in materia di servizi pubblici locali, ma tuttavia se ne trascinano altre, necessarie da anni, in tema di concessioni balneari e taxi. L’Ue dovrebbe insistere su riforme di questo tipo, più che sulla tempistica degli investimenti previsti nel Pnrr, allo scopo anche di calmierare i prezzi e predisporre le condizioni per la crescita.

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